lunedì 14 febbraio 2005

Lamento delle cassiere

Non lo so. Alle volte si avvicinano a me, sono morbidi, le loro mani non vogliono afferrare o graffiare, emettono calore rassicurante. Come un boa piumato le loro frasi e sorrisi e movimenti sono carezza. Mi ci sento così bene, e non vorrei mai finisse. Mi passano davanti le scatolette brillanti, il pesce impacchettato e l’odore delle caramelle, e non m’importa. Quante buste? A loro non le faccio pagare.

Capita pure il contrario, ma anche che mi circondino e mi controllino ogni movimento; spiano quello che faccio, o con gesti e rumori mi allontanano, alzano dei muri di gomma o di vetro antiproiettile, rifiutano di comunicare. Molti, addirittura, ridono di qualcosa che incontrano in me e che non sanno classificare, controllare. Mi feriscono. Sono costretta a fare calcoli metafisici.

Poi, per caso, perché gli orologi vanno senza chiedersi perché, perché le cose succedono e non chiedono permesso a nessuno, spariscono, mi dicono “ciao tesoro, alla prossima”, “ehi, stammi bene, eh?” oppure “mi faccio vivo io, se”. E io resto così senza capire, oppure capisco che non c’è nulla di strano, che mi ero perenne, infinita, totalmente illusa come sempre. Fisso le casse delle arance, così, perché dicono che l’arancione porta energia.

Prendo il microfono. Una signora troppo ingioiellata è venuta inviperita a protestare. “Un Audi nera, il proprietario è pregato di spostarla” e anche, una volta: “Una Ferrari Modena” - la vedevo con la coda dell’occhio – “in doppia fila”. Il proprietario nemmeno mi ha guardato, mentre usciva. E dire che avevo anche il mascara, quel giorno, e la french manicure fresca fresca. Denaro buttato.

So che nessuno di loro mi porterà via, con una vincita al superenalotto, in Polinesia. E’ questo che mi duole.

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