mercoledì 16 febbraio 2005

Paura delle cisterne

Oggi una cisterna tutta bianca mi ha stretto, sull’autostrada. Oltre la comprensibile paura, forse esagerata, mi è ritornato in mente quando guidavo d’estate con la mia vecchia Panda 750, su e giù dal campeggio in montagna… mentre salivo o scendevo per tornare al lavoro me le trovavo a qualunque ora sulla strada. Il trattore massiccio, guidato sempre da uomini altrettanto massicci, mi veniva addosso, mi frenava davanti. Alle volte, nell’arrossarsi del mattino, trovavo una che scendeva e mi tagliava l’incrocio principale a tutta velocità, vuota; andava a prendere un caffé (l’autista) e ad abbeverarsi nel fiume (la cisterna). Provavo a seguirla per un po’, tagliando anch’io le curve una dietro l’altra senza frenare, ipnotizzata dal gioco delle marce ridotte, il cui rumore di cambio mi entrava dalla finestra semiaperta come un’ansimare da predatore potente che corre verso la preda. L’autista mi guardava sempre, mi seguiva dai quattro specchietti, io stavo quasi per volare dopo tante curve, la Panda chiedeva il freno, e alla fine mi allontanavo per vederla allargarsi finalmente al semaforo, goffa come un orso nei vicoli della città vecchia, eppure capace di abbattere le case per passare. Se la trovavo in salita era peggio, era veramente l’immagine delle mie internità più recondite, la paura di andare indietro perché il motore non ce la fa (e questo valeva anche per il motore di una Jaguar), la paura di cozzare con la macchina dietro, i freni non reggono la pendenza, allora che fare, mi fermo scappo urlando lascio la macchina lì. Quando la vedevo che lentamente, veramente molto lentamente, boccheggiando il fumo più nero mai prodotto con i derivati del petrolio, andava su per le salite ripide che io percorrevo con la radio a palla per non sentire la pendenza che si agganciava alle ruote, in seconda, con il motore affogato, era il panico; non potevo fermarmi, mai in salita, non sarei mai ripartita: bisognava continuare, adattarcisi al passo, sputacchiare insieme china sul volante preghiere smozzicate e parolacce in tre lingue, temere il surriscaldamento del motore, il mio coraggioso 750, sperare in una cunetta che mi permettesse di allontanarmi dalla mole apparentemente arrotondata che nasconde le angolature, le punte, i tentacoli della piovra dei tubi di scarico, la minaccia delle ruote che sembravano schiacciare a fondo l’asfalto nerissimo, antineve, della salita. In qualunque momento mi sarebbe venuta addosso, e io sarei andata indietro, guardando indietro terrorizzata dall’inesistente baratro che mi voleva inghiottire, come in tutte le salite, in tutti i semafori in salita o curve strette in salita. Mai fermarsi, mai….

Mi stringevo nelle curve finché tutta la loro lunghezza non era sparita dietro la mia piccolezza. E poi, finalmente, me le trovavo al campeggio che scaricavano l’acqua, e lì era tutto un chiacchierare degli autisti con il guardiano polacco, risate, lazzi e frizzi, occhiatacce alle femmine, mentre il mostro sembrava un innocuo modellino H0 parcheggiato sul piazzale del deposito. Sentivo allora che potevo respirare (era piuttosto un soffiare da scampato pericolo), andare verso la mia casetta, farmi un caffé, sentire finalmente il silenzio del bosco vicino che mi riempiva, che leniva ogni dolore, fino alla prossima cisterna…

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