mercoledì 8 dicembre 2004

My room (in dreams)

Tema: la vostra stanza sognata.
Svolgimento: Se potessi definire il luogo dove normalmente vorrei lavorare – e cioè scrivere, tradurre, comunicare in determinate modalità con una parte del mondo, disegnare, aprire a caso pagine di certi libri oppure andare a cercare il libreria quel-libro, spolverarlo e cercare durante mezz’ora la frase sottolineata che definisce quell’esatto momento, portarmi un bel caffè denso alle 2 del mattino e lasciare lì la tazzina per poi fotografarla, mischiare le carte per un solitario Diplomat da poggiare su di un tavolino rigorosamente coperto di panno verde, guardare un disegno di mio figlio ogni volta che evado a pensare, studiare e venticinque o ventisei altri “etc.”. – sarebbe fornito, in primis, di chiusura a tempo come le casseforti. Orari regolari, finestre aperte verso la città, la musica quando voglio ed al livello acustico che voglio (di notte le cuffie senza fili, anche se da lontano potrei sembrare un clone di TheFly, andrebbero bene), ed il tavolo, di almeno 2 x 1,5, con lucina alogena (ma in altri tempi è andata ugualmente bene una flessibile ministeriale, di quelle verdi o nere) e due o tre cassetti ed un portacarte indiano zeppo, che mi ricordi la mia confusione. Una sedia con i braccioli, per potermi storcere sopra.

Gli abitanti di questa casa entrano ed escono e mi interrompono al telefono o più semplicemente in mezzo all’elaborazione di un pensiero complesso - è la sensazione di guidare veloce, in quinta, e dover di botto fermarsi e ripartire con la stessa marcia. Ci vuole la prima, o blackout evidente del motore – e io, con il proprio maelström che oscilla come un quadro di Pollock, ho un bisogno immediato di 80 mquadri-e-cubi di respiro. Ecco. Pareti bianche no, ma ben lontane. E silenzio. E notte.

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