domenica 11 febbraio 2007

Chi non rosica, sta meglio

Di solito io fotografo a gran velocità, perché c'è qualcuno che mi aspetta o perché il tempo mi sta addosso come una lastra di granito. Nella mia digitale compatta ho soltanto 49 foto a disposizione, alla risoluzione scelta: è una specie di rullino virtuale, e in più la batteria si esaurisce velocemente se comincio a cancellare, il tempo passa, la luce cambia. Queste situazioni di solito affinano la fermezza della mano e la capacità di scegliere le inquadrature. Mi sento continuamente come un reporter che deve memorizzare sulla scheda cose che stanno per sparire: le sirene suonano, il rifugio è vicino, ma la memoria è affidata a me. Se mettiamo anche insieme il fatto che è domenica pomeriggio e che vado a fotografare l'Ara Pacis usando i mezzi, il misto è vulcanico: il giorno che il centro sarà servito da mezzi che non passino ogni 20-30-40 minuti pieni zeppi, e con passeggeri occupanti i sedili per l'intero percorso, forse mi eviterò risalite di pressione come quella di oggi. Sono fuggita dopo circa un'ora, maledicendo le macchinette rotte (il biglietto me l'ha venduto una signora, che parlava soltanto inglese, al capolinea, leggendomi negli occhi la frustrazione), l'insofferenza per lo stare stipati come sardine, le macchine ovunque e dappertutto e nessun blocco a permettere, unica ed esclusivamente, il passaggio al centro di abbondanti, utili mezzi pubblici.

Meier a me piace, l'ho già detto. Quei spazi bianchi, immensi, eccessivi quasi; i monoliti ricoperti di travertino color crema o i paretoni grezzi in cui ogni pietra sta sulla successiva mantenendo una piccola separazione, uno spazio anche dove non c'è, a me non impressionano negativamente. L'entrata, con la fontana e le scalette, è come un foyer di collegamento con il rettangolo areato, che mi ricorda il Kursaal, e rende il tutto più accessibile, meno brutale, addolcisce il contrasto con i monumenti di altre epoche stipati in Piazza Augusto Imperatore, dal mausoleo agli edifici del ventennio. Un po' di nostalgia me l'ha data, perché il vecchio edificio, sulle cui scale gli studenti dell'Accademia mangiavano la pizza a mezzogiorno e leggevano i giornali, amoreggiavano e studiavano nelle giornate calde, aveva la patina delle vecchie biblioteche, era tutto per noi curiosi e per i pochi turisti staccatisi dalle guide obbligate. Dentro, l'Ara Pacis e i vari reperti romani un po' galleggiano in una luce che permette anche di fotografare senza flash, mentre i gruppi di persone si spostano intontiti, come spinti da un lieve vento, perché all'interno sembra come se fossimo a scala rispetto all'esterno. Noi siamo 1:10, mentre l'edificio prende il sopravvento e rivendica la propria entità di scrigno, avvolge e carezza il gioiello; ignora l'umano che può soltanto stare brevemente a guardare, aiutato dalle guide che scoprono le piccole meraviglie dell'ornato: gli animali, i grappoli acerbi, un panneggio insuperato.

Fuori è già tramonto. Due uomini corrono senza strafare sulla pista ciclabile. Folate di umidità salgono verso il cielo e mi sfiorano traditoramente le calze mentre attraverso ponte Cavour, verso un caffé all'Esperia dai grandi specchi, i marmi del bancone che ricordano l'agata, il rosso pompeiano dei quadrettoni al soffitto: caffé e dolcetti, ventagli, bambini che prendono più bustine di zucchero sotto lo sguardo fintosevero dei camerieri...

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