mercoledì 27 aprile 2005

Dura tra i duri

Se non ti piace quello che vedi, guarda altrove – penso allo specchio, una mano di sfida sul fianco. Quanta rabbia, ma sono così.

No, non sto bene qui in mezzo a questa porcellana verde acqua, sopra questo pavimento nero, questa finta strada asfaltata rassicurante tra le quattro mura. Profondamente insoddisfatta, desiderosa di non lasciarla, sono tornata dalla vera strada che oggi mi ignora e sputa dentro il garage come se la mia macchina fosse una pecorella uscita innavvertitamente dal gregge. Ecco, lo so, lo afferro: mi è rimasto aperto dentro un cassetto dal quale sono caduti fili spinati, luci fredde, silenzio di cimiteri sotto una luna muta, ignobile; tutto pattume che avevo adeguatamente nascosto. Tornare a casa era impossibile con un tale fardello di vuoto, e di solito il resto bolle. Ho dunque girato senza meta, accecata da lampioni crudeli, avvolta nelle rosse luci dei freni, orfana della mia città di cui sono cittadina profonda. Lasciarsi andare nelle discese, il piede a mezza frizione, pura meccanica dell’abbandono. Attraversare quartieri addormentati, spazi di nero assoluto, superare ponti su fiumi fermi in quell’esatto secondo là sotto, il cuore stanco dal troppo e troppo battere.

La mattina dopo, trapassata di sonno ma inesorabile nel seguire il dovuto quotidiano, passo sotto gli archi delle mura e comincio la curva che immette sopra San Lorenzo mentre il più bello degli ETR entra in quella dei binari di uscita di Termini, verso la direttissima, speculare alla mia. Sopra la tangenziale come al solito, aerei in rotta di atterraggio, la cappa sporca degli scarichi, la minaccia delle finestre sbarrate; ma c'è il sole, oggi è finalmente iniziato il periodo solare fino a ottobre. Guardo davanti e il treno a piccoli intervalli. Stiamo per chiudere insieme un cerchio casuale, un ying e yang, io grigia e lui rosso. Contenuta nella parentesi, guido attenta ai movimenti inconsci delle altre macchine: poi esco al sole, davanti alla discesa che immette nell’autrostrada, e la luce entra dai vetri un po’ abbassati e si mischia con il ritmo tenuto dalle corde basse di una chitarra, che esce dagli altoparlanti. Lontano, il treno si allontana verso la Stazione Tiburtina. E così come quando cade una goccia nell’acqua, rotonda, dopo essere stata sospesa per un attimo lentamente filmato, così nel vederlo allontanarsi la mia notte interiore si scioglie ed unisce al giorno; le mani del chitarrista battono sulla cassa, il ritmo accelera, accelero anch’io, si uniscono anche a me gli altri strumenti e vite in movimento. Lasciamo una scia e siamo una foto istantanea. Il cerchio gira e lo ammetto, finalmente.

Spinta del sole che riscalda, carezzata. Bastava spegnere dentro ed accendere i sensi, lo sguardo fuori ed altrove. Azzittire quell’interno che ci ricorda la mortalità è importante quanto respirare: è per respirare meglio. Tutto ciò può durare un secondo o per sempre, anche.

Hai visto. Non era meglio prenderla a ridere? – rido allo specchietto, rido, rido, e sfreccio a 110 sul raccordo.

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