giovedì 3 febbraio 2005

Senz’acqua

Guardo, guardo le nuvole, ventagli aperti nel cielo, mentre vado come tutte le mattine, tutte ma tutte diverse, zigzagando sull’autostrada, battendo il ritmo della musica sul volante, svagata perché è presto. Merli, passeri, cornacchie poggiate sui lampioni come animali fantastici, il becco aguzzo, uccello del malaugurio. Dopo questo primo rifiuto, però, me le riguardo sempre, le vedo così grandi che mi viene voglia di prenderne una per a capire se mi sbaglio, forse sono calde e silenziose, forse sono soltanto cugine dei formidabili corvi neri che sorvolano impietosi i campi di grano castigliani, nella calura di giugno, come avvoltoi. Lenta e precisa passa la mietitrice Claas, un carrarmato giallo o verde che scarica nel camion il grano polveroso, e il grano va dal camion al magazzino dove una luce sola filtra nel pesante meriggio. Le strade del paese, un tempo fatte della sola terra su cui tutto è poggiato, adesso di un cemento crudo e straniero ai colori dell’altipiano, sono mute, fa troppo caldo, le porte delle case hanno la palpebra lieve di una tenda i cui colori sono aggrediti dal sole, chiuse ed insieme in mostra alla curiosità. La porta è aperta, e io - come tutte le volte che ho trovato una porta semiaperta che porta ad un cortile, un magazzino, una casa in costruzione, una qualunque tranche de vie privée - la spingo, un portone di metallo; dentro un silenzio solido, la polvere del grano dappertutto, e l’odore dei mattoni fatti con l’argilla e la paglia. E fuori sempre il sole, il sole implacabile. Quest’odore, la polvere, l’odore della terra, la crudezza del sole, sono invisibile tatuaggio che percorre tutta la mia infanzia; un io libero nel fango delle strade con gli altri bambini radunati dalle famiglie nell’estate, libera nella notte senza luci elettriche, camminando nella pianura infinita fino a casa, sotto la luna piena, senza bisogno di altre illuminazioni. No, nessuno mi vede, nessuno verrà a dirmi niente: prendo un pugno di grano e lo metto in tasca. Adesso dorme in un cassetto di casa. Fuori, nell’estate, non ci sono mai nuvole. Una superficie metallica blu, un Klein che mai finisce.

Guardo, guardo le nuvole e sotto le nuvole c’è questo cielo invernale, anonimo come un cielo d’albergo, incolto da cicogne e da cornacchie. Sotto tutto questo teatro di linee e di curve limitanti cerco il mio immenso blu così lontano, lontano mare dentro e sopra e sotto di terra e di colline basse che si vedono soltanto al tramonto e all’alba, come un limite viola all’orizzonte. Chiudo gli occhi e spengo il motore, concentrata sul gracchiare delle cornacchie, che si va allontanando.Vado..

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