Sentire dove poggiano le parole
Quando sento la radio in onde corte come oggi, mentre provavo a trovare programmi in francese dal Vietnam o in inglese dalla Thailandia, novità ed informazioni diverse da quelle “da banco” di tutti i giorni, percepisco il movimento della terra: piano piano il segnale, con il passare delle ore, si affievolisce ed alla fine soccombe nella pirotecnia di sibili e di altre voci, altri segnali che si sovrappongono senza violenza (non come color che strillano nei programmi tv, per intenderci); come onde, appunto, colorate che scivolano sulle spiagge dell’etere. Percepisco l’umore dei programmi in lingue sconosciute: si ride, sono concitati, si discute oppure esce dall’altoparlante una bell’aria di estate, quando passiamo sopra il sudamerica; oppure, in un inglese scandito, emerge la Declaration of Human Rights da un emittente di Papua. E, allo scadere dell’ora, della mezz’ora alle volte, il microfono si chiude, un silenzio tangibile, e rimane lo spazio libero per un’altra emittente che sulla stessa banda occupa un tempo limitato, magari in latino. Questi pacchetti di suoni e di vissuto, che girano sopra di noi e s’incrociano con tutte le nostre conversazioni dal cellulare, bombardati dal magnetismo solare, sono per me una delle cose da conservare, e fonte di curiosità infinita. Nella notte immagino (la radio permette ancora di immaginare, di crearsi le proprie immagini delle cose) lontanissimi, studi insonorizzati con i cartoni da uova, con il polistirolo, o megaparchettati; nel semibuio, davanti al microfono, molti di loro sanno (in particolar modo chi sa di trasmettere in onde corte o cortissime) di rivolgersi ad un potenziale pubblico che sta seduto davanti ad un apparecchio, anche piccolo, in qualunque luogo del globo. E non allo stesso modo della Rete: non sono distratti gli occhi, ma coinvolto il cervello. Ammiro le loro voci dalla dizione perfetta; ascolto con ammirazione…Radioascolto
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