lunedì 3 gennaio 2005

L’amatriciana

Il distributore è vuoto. Musica dagli altoparlanti. Sembra un film americano, italomericano.
- 20 € di gasolio, per cortesia. – gira il contatore, do’ i soldi al ragazzo.
- Questo mese i punti valgono doppio… - mi porge la mia tessera con un certo sorriso canzonatorio, e la strisciata con il numero dei punti totalizzati.
- Ehi!! Finalmente una buona notizia! Grazie! Forse potrò prendermi qualche regalo…
Guardo la strisciata, scansiono i soldi del resto, mi metto la cinta, alzo il volume, parto veloce. Oggi un sole tiepido, sospeso. Infilo il curvone del toboga che dall’autostrada porta alla tangenziale, seguita da un furgoncino da muratore pieno di latta. Bolgia della Stazione Tiburtina, pedoni, motorini: niente. Soltanto la stazione degli autobus bolle, sotto le pensiline quell’umanità che fui anch’io, abitante occasionale di autobus transeuropei che stanno fuori parcheggiati come grandinaviveloci, un arcobaleno di destini da mille ed una notti nelle quali si dormicchia malseduti, sentendo il chiacchierare degli autisti e l’ammiccare dei lampioni nelle strade solitarie. Gira la strada, perseguitata dalle trombe ed i sassofoni che swingano dagli altoparlanti, mentre svolto su Piazzale delle Province per risalire viale Ippocrate sotto una pioggia-oro di foglie. Davanti a me frena un M5, ippopotamo urbano aggressivo quanto l’originale, e parcheggia sul marciapiede ad un angolo di strada, bloccando quasi, nella ristrettezza, una ragazza tra il sorpreso e l’assassino. Tutti i vialoni sotto il Policlinico sono deserti, gli stradoni romani perennemente invasi di brulicante fermento urbano e arrivo al parcheggio della Nazionale, sotto le pietmondrianesche e calde perpendicolari dei finestroni. Voilà, cammino libera appena sfiorata dall’impertinente tramontana, e comincio a camminare in quel quartiere che dalla stazione Termini risale a palazzi e lenti portoni segreti, conventi ed ambasciate, fino alle retrovie del Ministero delle Finanze ed i sottopanza di Via Veneto. Le vie lì sono anonime, alcuni ristoranti sembrano tuguri, il personale che gira di solito sono i soliti impiegatucci statali o parastat, arroganti, griffati, o imbolsiti e trascurati. I bar rigurgitano di caramelle e biglietti dei vari concorsi e gratta e vinci. Un acre odore di straccio riusato aleggia, in certi giorni. Ma io entro in questo ristorante che sembra più o meno un salotto un po’ grande, le doghe alle pareti lucidate, le decorazioni natalizie non dorate, ma blu e rosse, che lo incupiscono, e richiedo golosa una amatriciana. In cucina c’è la moglie del titolare che, come da guida gastronomica, è piccola e silenziosa, perché a tenere il controllo della sala ci pensano gli occhi da husky del proprietario. Quando arrivano i bucatini - questo piatto semplice che non tollera nemmeno il vino - ebbri di pecorino e piccanti al punto giusto, io taccio, ed il mio più caro amico pure, preso alla gola da fettuccine con funghi a dadini carnosi. Ci sono tante cose che uno può mangiare nei ristoranti nascosti in queste strade, i cui menù non possiedono l’asterisco che indica il prodotto congelato, e che vivono di impiegati scuri ma potentissimi, che qui raccontano vita morte e miracoli dei loro piccoli mondi dostoievskiani. In questi posti si muovono le volontà tanto quanto nei ristoranti degli alberghi. Una scamorza gonfia, cremosa come una mozzarella appena uscita dall’acqua, nonbruciata da ogni angolatura, tanta conversazione, caffè e conto che è tardi, ciao, baci, vado. Pago il tempo del parcheggio, filo sotto le lame di un sole milanese, slavato, beffardo. Attraverso Piazza Vittorio e le bancarelle, tutti i cinesi e africani e bangladeshiani che spostano carrelli o chiacchierano fuori e dentro i loro negozi, e finalmente lo stradone che porta dritto fino alle mura, esco da Porta San Giovanni, un flash di campagna come fu, verde e di pecore popolata; ci separa dall’illusione una generazione sola.

Ed un caffè, a casa, nel soffuso pomeriggio che avanza nella notte.

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