domenica 25 gennaio 2009

Il mercato che fu di Gargantua



Un banchetto.

Ci sono due modi di affrontare il mercato di Porta Portese: con o senza i soldi. Con, preparatevi prima una lista - in un momento di serenità - di cose che vi piacerebbe avere, che vi farebbero felici. La lista può essere lunga e avete a disposizione tutto il tempo: tanto, c'è tutto. Senza, vestitevi comodi e siate pronti a sognare e a sorridere. Attraversate la porta.

Intorno al mercato ci sono sempre cani e gabbiani. La strada, che nella settimana è uno dei tanti anonimi nastri asfaltati malati di doppiafila e motorini, prima diventa una Champs-Elysées del vestiario a buon mercato, collane e cinturone, scarpe e porchettari. Poi si restringe, inghiotte ragazzi con capelli da mod e vocianti sudamericane che fanno dell'acquisto di un orchidea una gioia stellare, bambini gemelli nei passegini e gli onnipresenti pizzardoni bardati di ogni loro bene tecnologico. Poi si biforca e mostra tutte le piume: vestiti da teatro, lustrini e libri vecchi, dvd in torri da 100, montagne di pentolame, cocorite e colletti hand-made di cuoio rosso, interminabili montagne di pietre dure e fili di perle ed occhiali ed un altro porchettaro con i cartelli scritti sulla carta oleata. E poi giù tavolini con la base fatta da rose dorate, armadi, un vecchio fax, avori e lucidalabbra, il banchetto dei guanti, ferramenta spicciola e finte Dr. Martens. Sei perso, sei finito, in ognuno dei due modi gli occhi ti si sono riempiti così tanto che vuoi anche fuggire, che vorresti scappare, e invece vieni abbracciato e stritolato e lanciato in cielo da un immaginario tappetone tenuto da sospettosi orafi bengalesi e svuotatori di cantine sessantenni: è l'Encyclopédie romana, unica al mondo.

Porta Portese è il trionfo della storia. Nei centri commerciali asettici non si percepisce il passaggio del tempo: qui sì, eccome. Così tanto e così forte che le sue strade, riempite di carabattole e di ricordi, dischi, foto ed echi degli stornelli del Ponentino Trio, ti ondeggiano davanti e ti disperdono. Se, come spesso accade con le strade romane, sono gentili, possono anche portarti fino ad un laboratorio di pasticceria, dove ci si può arrendere davanti ai bigné o alle crostate; se invece no, toccherà fare qualche giro di più. E io nel mentre pensavo quanto mi piacerebbe portare con me per la città uno con la sufficiente faccia tosta da fare le domande che io non sono capace di formulare - per esempio, al venditore di panni ultra-assorbenti ed ignifughi che fa solo questo in tutti i mercati e che usa metodi di convinzione ancora umani - e un altro che fissa queste realtà in foto serie, come Basilico ma sugli uomini. Per sentire che siamo stati loro, che siamo loro, che un giorno saremo loro: e tutto ciò rimarrà, perché lo avremo raccontato.

venerdì 23 gennaio 2009

Scivolare di un tango

Lo so che il cielo non è piatto, che non ha una superficie. Non è quel che mi sembra, mentre percorro la solita autostrada: il cielo non si piega come una sfoglia grigia, non ha la consistenza di qualcosa di plasmabile; non sono solide queste sue righe, le mie mani non possono prenderle, scolpirlo, non si può modificare la capigliatura del cielo creando ciocche lucide con questo gel spesso, grigio, dal quale scendono attoniti gli aerei verso Ciampino e che nesuno guarda tranne me.

Sono movimenti scivolosi. E se guardo giù ne vedo altri, brevi gesti delle persone che i finestrini inghiottono, e se mi concentro posso, come sempre, carpire il nervosismo della mano sul carrello della spesa di una ragazza baciata in mezzo alla strada dal ragazzo che la tiene stretta, o la concentrazione nell'evitare gesti dolorosi di quel signore che sale le scale dentro un androne dipinto di verde. O la tristezza di una Panda che ho visto procedere lentissima, a fari spenti, dentro quel palcoscenico polveroso che è il tunnel del Muro Torto, in una solitaria domenica.

Includo in me questo vedere, questa vita per la maggior parte del tempo ignota anche a noi stessi; questo vivere puro, senza scudi, preso secondi prima di alzare le nostre solite difese. E lo considero come un lento, interminabile tango...

giovedì 8 gennaio 2009

c=relaxed/relaxed

Non ci siamo resi conto, presi dalle conversazioni infinite, o piuttosto io mi sono staccata, concentrata sulla tua voce mentre passavamo sopra una specie di pista di laterite, mentre costeggiavamo case nei cui giardini ancora razzolano le galline, condomini cicciotti posti ai bordi della strada, schivando le machine che mi si buttano addosso dalle strade laterali, e l'intorcinamento dei lavoratori automuniti presi nel caos del turno di pomeriggio: passiamo vicino a una pagina di libro schiacciata nella melma acquosa, e immagino le parole, mi gusto la caramella mentale di una metafora, mentre saluto la guidatrice che mi ha permesso di svoltare a sinistra e fiondarmi nello stradone che porta da TorCervara all'autostrada; affronto il curvone, alzo tende d'acqua dalle pozzanghere, sono insieme le mie dualità atterrita-incosciente nella pressione del piede sull'acceleratore, sono sulla corsia ottusamente grigia.

Tu parli di cose che mi piacciono e per cui non ho tempo, una coscienza che mi ferisce come questi indefiniti corpi metallici che sorpasso - nemmeno posso vedere gli occhi degli altri sugli specchietti - mentre sto su una fioritura di luci rosse come fosse seguire pedissequamente le righe di un programma, e tu parli e io penso ad una pagina di un libro di Roth che ti riguarda completamente, è ritagliata su di te come uno scoppio di risata, e so che non potrò mai raccontartela, chinati complici su di un thé o una birra o anche niente.

Perché il tempo ci trascina in un infinito atterraggio su piste puzzle istantaneo, così vicini e così lontani, ed è così caldo il mio palmo di un solo essere stato sfiorato che brucia e si perfora mentre ti allontani nella pioggia.

lunedì 5 gennaio 2009

Bimbi, befane e le molle delle sospensioni

Di solito io sono una tollerante, anche troppo, pure vigliacca diciamo. Ma i mezzi pubblici mi danno certi nervi... Oggi tornavo da una mostra nella quale ho dovuto camminare come su gusci di uova per non urtare la quantità di persone presenti, e quel che più ho sentito, nel lieve buio delle sale (al quale non si è abituati, ok, ma l'illuminazione dei quadri, nel periodo storico in cui furono dipinti, era probabilmente quella), è "Scusi", "Prego" e "Ma le cornici sono quelle autentiche?". Uscita e fatta una camminata veloce, ho affrontato il tabellone della fermata, una buona invenzione che, se il tuo autobus è a 22 minuti dall'arrivare, permette di andare a prendere un buon caffé a due metri dalla casa di Madame Mère. Poi, schiacciata all'inverosimile, con i gomiti di altri nelle costole e sbatacchiata come in un tritaghiaccio, senza poter nemmeno riflettere un secondo su altro che non fosse la semplice sopravvivenza spaziale, ho espresso un desiderio alla Befana dei grandi, che c'è, anche se di solito dorme. Perché mi mancava un po' di musica e lo sfrecciare adrenalinico nella solita Calcutta del traffico, ma anche il bello di una città più umana.

Perché non mi piace, ma finché gli autobus non passeranno, nelle ore di passeggiata-vascheggio-saldi and so on, ogni dieci minuti o anche meno, io non mollerò la macchina. E finché gli autobus elettrici non saranno la maggioranza, in centro, con una frequenza anche maggiore, un po' più grandi e con le sospensioni a posto (per dire, sono sicura che i camion di Overland le hanno migliori) io non mollerò la macchina. Soltanto così, forse, la città potrebbe respirare..