mercoledì 31 dicembre 2008

Primo: non sprecarsi

Adesso vi racconto una storia vecchia: c'era una volta il blog come condominio di casette fate a mano, collocato fuori città, raggiungibile facilmente e che gli abitanti tentavano, infantilmente, di trasformare in una comune, dividendo colori, esperienze e sensazioni. Poi arrivarono i classificatori, che diedero nomi all'innominato - creando un preciso linguaggio, e con esso, un potere collegato - presero misure e fecero valutazioni, e coloro che abitavano negli attici ma anche coloro che si affacciavano ai primi piani, presi dai flash sparati dagli sconosciuti e dagli sforzi per mantenersi giovani, evitarono di sistemare le perdite d'acqua che gravavano sui vicini di sotto, e non c'era più nessuno quando finiva lo zucchero al vicino. Un temporale, un maelstrom: galassie venivano create e buchi neri inghiottivano la materia delle conversazioni... Seguì un epoca di assestamento: alcuni fuggirono, altri provarono a specializzarsi diventando così indispensabili artigiani; altri rimasero esempio da tenere sul comodino, un po' alieni ma sempre coerenti. Nel condominio serpeggiava e poi colpì ogni androne ed ogni pianerottolo una malattia subdola e curabile soltanto con l'amputazione: la superficialità, il perdere di vista uno degli obiettivi umani migliori, che è dare qualcosa all'altro, ed eventualmente riceverne qualcosa in cambio. Crebbero le applicazioni sociali che presto si trasformarono in bar, macchinette del caffè e portierati virtuali dove ci si radunava per cincischiare e fazionare: e io, sempre più spesso, mentre chiudevo il computer per andare a leggere come tutte le sere, sentivo che era ora di fare lo zaino e scoprire nuovi mondi, meno inquinati.

Detto questo, procedo a ridurre tutto il non indispensabile: presenza assidua su FriendFeed, e rischio di chiuderlo, perché quel che scrivo o condivido non interessa a nessuno (quel che mi interessa davveroposso sempre trovarlo a casa degli autori, ma in alcuni casi lo trovo lì) e per il troppo rumore; molti feeds, perché voglio rispettare coloro che scrivono e che aggrego leggendoli, non marchiandoli come già letti; e un sacco di twitters che cinguettano cose che alla fine non suscitano in me grande curiosità, oppure le fonti di informazione, che mi riempiono la pagina di notizie e oscurano le voci di chi voglio ascoltare. Come chi pota i rami di un albero cresciuto senza tutore.

Il blog rimane, scarno come sempre, senza filmati, senza pubblicità, brutto; anche se di questi tempi i blog sono nuvole sparse e non più luoghi curiosi da esplorare, esso rimane la stanza tutta per me, e alla mia casetta virtuale ci tengo. Sarà un blog senza trackbacks, il diario silenzioso, banale, di una che ama compulsivamente alcune persone, e poi leggere, le città, e la musica tutta.

Con questo, saluto ed auguro a voi tutti, amici, vicini, ex-vicini, passanti occasionali, un Buon 2009.

lunedì 29 dicembre 2008

Era una cosa cozza, una tirata brutta

Non bisogna pensare che io ami questa città incondizionatamente senza vederne le sue brutture, fatte non soltanto di periferie e di campi, o di incuria totale nel trattare la memoria, o di un perenne atteggiamento di odio-amore nei riguardi di chi viene ad ammirarla. C'è una faccia brutta della città che parla con un rumore basso, soffocante, che spappola ogni razionalità e ci spinge come animali dentro trappole profumate e colorate: i centri commerciali. Oggi, convinta che forse era finita, che forse avevamo mangiato e bevuto abbastanza e riso in faccia a tutte le notizie di crisi, sono andata a Porta di Roma, all'ufficio postale, con l'idea di fare anche una piccola spesa di cui tenevo la lista in tasca. Il parcheggio inferiore era gremito oltre le mie più orride aspettative. Noi guidatori, la specie più feroce di romani, ci affrontavamo come gladiatori, pronti al colpo di volante che ci avrebbe attribuito l'agognato posto, imprecando contro quelli che si erano messi larghi-larghi, a cavallo di tre posti, sotto una lucina verde che era invece segno della trappola per topi; sbuffavamo per le assurde giravolte dei percorsi che soffocano ogni tentativo di scavalco di corsia alla "l'ho visto prima io". Mi è anche toccato manovrare in posti parcheggio messi negli angoletti più nascosti, fuggendo dai pilastri traditori che lambivano le fiancate dello squalo.

Agli antipodi delle luccicanti facciate, finalmente, trovo un parcheggio. Posso entrare e sbrigarmi velocemente, credo. Che ingenua. Già file strabocchevoli riempiono le scale mobili, bambini trascinati con ai piedi i pattini nuovi, coppie giovincelle al primo incontro che vanno a prendere il caffé dio-sa-dove, gruppetti che sbirciano le vetrine, soppesano profumi, fanno la fila fuori dalla minuscola tintoria (fanno lavare, lì per lì, il giaccone, mentre mangiano una pizzetta e si leggono il giornale?), si siedono nelle fioriere-panchine-punti di raccolta. C'è un mare di gente nell'ufficio postale, con i suoi addetti ieratici che riescono non so come ad ignorare la calca che faticosamente si controlla, nello spazio angusto, dallo scoppiare in un attacco collettivo di territorialità. Prendo un caffé banale mentre penso a coloro che in questi posti soffrono attacchi di panico, e ai commessi del supermercato che immagino allenati come poliziotti di reparti speciali, in stanze anecoiche in cui vengono bombardati da un misto di risate, strilli e di frasi tipo come "sei sicura che non abbiamo finito lo shampoo?", "di questo ne ho preso tre, era in offerta", "lascia le caramelle!.. va bene, quelle sì", finché il mondo esterno diventa loro totalmente indifferente, come quando sfogli le pagine di un libro che non ti piacerà mai: e davanti alla mia spesa normale, piccola, mi chiedono "fino a dove, signora"? come fanno con quelli che riempiono tre volte il nastro trasportatore e il cui conto si arrotola come un ricciolo di gesso.

Torno lentamente sul Raccordo semivuoto, in cui si sente davvero quando qualcosa succede alla città. E penso a questi posti che sono per me il male, qualcosa che mi strappa le budella e mi fa aborrire il genere umano in quel momento; li fuggo perché non sono disumana, ma generosa, e lì nulla viene dato, ma sottratto con un sorriso da Joker, per poi buttare via i gusci vuoti...

martedì 23 dicembre 2008

Is Christmas? - Ouch

Adesso, io andrei a rifugiarmi nel letto, e non riemergerei che il 1 gennaio, per andare al cinema nel pomeriggio.
Oppure se ero in Castiglia, sarei uscita fuori casa, all'assoluto silenzio dell'altipiano, un territorio senza feste né ricorrenze che contiene però la visione, e la percezione che mozza il respiro, del continuo girare della terra.
O mangerei da sola in un ristorante che sta per chiudere, con il personale che mi guarda stupito dall'oblò della cucina e fuori si raggiunge il culmine della tregua natalizia.
O anche: di notte in un treno, che il macchinista ferma a mezzanotte per un breve momento: e da qualche parte si sentono evviva e lo stappare di uno spumante, e mi potrei sentire come in un capitolo di racconto di Carver ambientato in mezzo al deserto del Mojave.

No, farò invece cose normali, stabili; vivrò scene che un giorno studieranno gli storici e gli esperti sociologi.
Che scriveranno di auguri scritti nei blog e ne faranno un'analisi esegetica per fasce di età, livello economico e titolo di studio.

Chi passa di qua sappia che non soltanto oggi, che non soltanto domani e che per altri 363 giorni è ricevuto con un sorriso e, se si comporta bene, anche una pacca sulla spalla e ascolto illimitato. Auguri, a 'bbelli e bbelle. Que sea leve.

domenica 14 dicembre 2008

Del riuso della penna stilografica



Dalla macchina, sotto la pioggia

Ieri mi è capitato di dover andare alle Poste centrali a spedire un pacco. Non ho permessi per la ZTL e dunque ho lasciato la macchina a dormire in garage fino a lunedì. Mi sono avviata con i miei cinque chili circa di pacchettone e quasi subito si è messo a piovere alla grande. Rifugiata sotto la pensilina della fermata dell'autobus (e mumble-maledicevo i mezzi pubblici con la spocchia del guidatore romano abituato a correre-svicolare-strizzare il tempo come un asciugamano) sentivo il tempo che passava, non sapevo se mollare tutto e tornare a casa, passavano i soliti bus vuoti che tornano in rimessa quando alle fermate c'è un sacco di gente che aspetta, passavano dall'altra parte due, tre, quattro bus di ritorno e giù a rosicare, occhiate all'orologio, frasi di consolazione-rassegnazione dette a mezza voce. Ed ecco finalmente il torpedone. Appoggio il pacco sui piedi. Lasciamo spazio e posto ad una signora anziana. Si chiacchiera. Salgono due ragazzini coi capelli bagnati. Salgono due giovani spagnole in vacanza, bionde, seccate dalla pioggia. La signora anziana incuriosita le interpella, vuole capire da dove vengono. Dopo un po' non resisto ed intervengo: e parte una conversazione in cui si mischiano Ostia Antica e la mancanza di informazioni, la muratura romana, l'effetto "abbiamo troppe cose per curarle tutte" e giù capitelli e pezzi di colonne dappertutto, la Scala Santa, la Chiesa dei Cappuccini e le scaramanzie italiane contro la morte. Chi ci circonda interviene, o ascolta.

- Pero es que con esta lluvia no es lo mismo...* - e guardano nel buio, verso i Fori. Guardo anch'io e so che cerco la stessa cosa: il sole, sangue della città senza il quale ogni pietra è morta, ogni gloria sepolta. Le "invio" a Sant'Ignazio, a vedere l'affresco della volta che si muove e si sposta per effetto prospettico.

Anche alla Posta parliamo tra sconosciuti, nella fila: chi con un fascio di raccomandate, chi un vaglia. Persone che trovano fili comuni e che in dieci minuti raccontano incontri, sensazioni e vissuti. E mi rendo conto di essere in un FriendFeed istantaneo della VitaVera del Centro, e riprendo vecchie abitudini prendendomi un caffé al Mercedes Caffé - dove troneggiano vassoi di stuzzichini e l'ambiance è come sempre tranquilla e gradevole - e commentando del nuovo arredamento con i baristi.

Scrivo veloce sul taccuino regalo-di-Kurai-all'intero-RomeCamp con una stilografica regalata dal my wise, mentre ritorno. E penso che il mondo è ricco per chi ne è curioso, per chi è aperto a capire, dentro e fuori dalla rete. E che bisogna per un po' staccare, lasciare le chiacchiere virtuali e il tempo usato nell'osservarle crescere e morire per guardare fuori. La vita è altrove.

*Con questa pioggia non è la stessa cosa..

sabato 13 dicembre 2008

Forse il cielo di una mattina qualunque in cui non sono sotto il neon a dimenticarlo



Via Donna Olimpia, una casa popolare

Monteverde è una bolla, un'idea di quartiere che esplode verso fuori, spintonato e insieme accocolato verso Villa Pamphili; sale e scende in due-tre collinette raggruppate, discreto perché non cambi il comune sapere dei sette-colli, quella cosa per turisti. Ma io so benissimo che in questa città non bisogna aspettarsi regole o indicazioni. Nulla è scritto che mostri quel che deve essere scoperto per caso, con lo sguardo assonnato che sfugge, o all'interno di un cortile dismesso: chi va veloce per i vialoni non può trovare le scale elicoidali, i balconi con la mostra dei cactus, i cartoni di chi ha dormito all'addiaccio. E ci sono tante volte che vado veloce ma lascio appesi sguardi come post-it, perché prima o poi ripasserò e potrò fermarmi.

A quest'ora ci sono anche i posti di parcheggio. Degli adolescenti si attardano mangiando ciambelle nel bar, lasciandoci dentro una ragnatela di conversazioni. Rumore di tastiere infinite di computer, odore della polvere degli uffici e delle case, il tlac tlac dei carrelli della spesa. Entro in quelle case costruite prima di ogni altra casa, enormi palazzoni dalle facciate sbiadite, volendo essere invisibile e che nessuno mi noti mentre entro nella memoria. Mi è impossibile non guardare dentro questo passato, dove le generazioni sono cresciute ed invecchiate: impossibile non vedere i parchetti e gli anfratti, gli angoletti dove d'estate è fresco e d'inverno si possono coltivare le rose, o le scale maestose che, quando non c'era l'ascensore, erano l'agorà di rumori e sospetti, la socialità cui non si poteva fuggire. Tutto ciò mi resta dentro.

A San Pancrazio grandi restauri. Le pareti dipinte con tende rosse e colonne sui pilastri, una finzione di profondità tipica del 600-700. Silenzio assoluto e buio necessario. Dietro le mura spesse dorme l'immenso parco, senza nulla curarsi del cielo blu che preme contro la coltre grigia che alla fine si sfilaccia, rendendo vivi gli attici e le villette colorati come fiori che stanno ai piedi delle mura Leonine, inaffiati da invidie come la mia. E poi mi perdo, tanto prima o poi si trova una discesa, si viene risucchiati dalla fretta, dal fluttuare di un sole che resiste, ma poco durerà, alla pioggia...

mercoledì 10 dicembre 2008

Anch'io ho appuntito la mia piumetta

Io sono di poche parole e spesso dette in fretta: mi piace ascoltare. E in questo caso, leggere. Che SirSquonk sia lodato ad aeternum per essere uno di quelli che fanno un sogno, e poi altri lo fanno realtà (anche se tocca a lui impaginarlo): è il Post sotto l'Albero 2008. Sentite (e non mi riferisco all'udito) le sue parole.

Anch'io ci ho messo qualcosa, che nel diventare del bel tomo è passata da mattina a sera, forse per reminiscenze Belliane... Per sfogliarlo come un catalogo da supermercato (ma è comodissimo, giuro) qui*.

*grazie a Botulinux.

venerdì 5 dicembre 2008

Una citazione

"Anche quando i guai ci capitano addosso alla sprovvista, sappiamo benissimo che c'erano anche prima, e che altri ci aspettano nel futuro, già pronti a cascarci sulla testa; e sì che noi ci prepariamo ma, ugualmente, quando un problema ci perseguita come un incubo, quando ci troviamo in preda a una sorta di solitudine senza speranza, letale, continuiamo a fingere che il fatto di condividere questi guai con altri possa renderci felici."

Orhan Pamuk, Il libro nero

Un libro denso di emozioni densificate, lasciate galleggiare dal profondo, un viaggio in sentimenti che sono di tutti anche se descritti in un paese lontano, e una traduzione, a mio avviso, eccezionale.

giovedì 4 dicembre 2008

E cominciarono i giorni a diventare sabbia

Il mare viene ai miei piedi, le onde piano piano s'immergono nella sabbia, finsicono, una dietro l'altra, meste. E' un tramonto morbido d'estate, che promette un'altra giornata altrettanto mollemente adagiata sulle vacanze o le possibilità delle vacanze. Guardo il mare con in mano un flacone di Chanel n° 5 che non oso aprire, me lo tengo per l'intimità della mia stanzetta, nel mio pianterreno, lontana dal mio gatto che odia i profumi: è stato il primo regalo. E anche abbracci e sorrisi di amiche che non ricordo, di altre che non ci sono, di persone che ora nemmeno saprei riconoscere per strada. Matite per gli occhi e pennelli per il fard, tutti tentativi dei miei compagni di questo periodo di tempo, com'è poi sempre stato, di migliorarmi, di togliermi i capelli dal viso, di tirar fuori lo sguardo da dietro gli occhiali, e forse anche un sorriso. E' tutto molto bello, la festa organizzata includendomi in un'altra ("così lo celebrate tutt'e due insieme" - e ora nemmeno ricordo chi era lei), cibo e musica e quel tramonto che mi entrava dentro al cuore come una lama; e immagino, perché nulla ricordo e tutto ho rimosso con ferocia, mi sembra ad un certo punto sono come sempre fuggita, baciato ed abbracciato e ringraziato tutti - perché sono educata - e subito già lontana, sola con me a tamponare la confusione e a dirmi che in fondo hai detto sì, che è tutto indifferente, che dopo tutto hai soltanto compiuto trent'anni.

Non era niente. E' adesso so che le onde venivano a me come un ammonimento, che avrei abbandonato l'odore delle strade per entrare nelle cartoline del'ipocrisia. Che avrei avuto un'altro tipo di ansia e le avrei guardate con il pensiero altrove. Lo smarrimento del futuro s'insinuava nella brezza. E la sabbia era il tempo che cominciava a scorrere.