sabato 22 novembre 2008

I social-aliens passano col giallo



Facoltà di Economia RomaTre, sede del RomeCamp2008


Mi stanno davanti nella configurazione dei Verve nel video che li rese famosi: prima un adolescente smunto, risoluto, le labbra strette; dietro i sodali compagni, dinoccolati tutti, padroni della loro strada. Si avviano verso il mercato di via Sannio che a quest'ora di quasi pranzo fermenta di persone che consumano misteriosi cartocci o telefonano passeggiando in mezzo alla strada; mi toccano le occhiate intelligenti di lunghi uomini di colore svegli, o di coloro che chiedono l'elemosina al semaforo mentre scannerizzano l'interno della mia macchina. Una socialità pulsante e amalgamata di emozioni dal banale all'assurdo in pochi metri all'ombra delle mura romane, dei marmi di SanGiovanni, chiasso contro il silenzio borrominiano, micro-kasbah.

E' lì dove una come me sta meglio, guardando come indifferente ma vigile, tesa a non farmi scappare i gesti premonitori delle azioni. Nessuno mi guarda, nulla mi è dovuto. Il fiume scorre come al solito, ognuno in fondo preso dentro i fatti suoi e molto concentrato sui limiti territoriali: sociali ed umani, solitari e non. Il RomeCamp, una parentesi bianca e rossa nelle mie giornate ultrapiene, mi ha dato l'occasione di essere come sempre ultrastranita (reduce da una notte senza sonno) ma anche di sentire talk interessanti e verificare che, come al solito, si raduna un sacco di gente che si conosce, dinastie di trentenni che si sono fatti le ossa o se le fanno ancora sul web; c'è che scrive bene e guarda al futuro, chi comunica h24 ed è conosciuto da tutti, e poi ci sono tutti gli avventizi, caciaroni, new entry e social-alieni come me. Su tutto una organizzazione perfetta, seria.

Ho salutato alcuni ed ignorato altri. Sentivo un gran bisogno di calore, d'intimità e di silenzio. Superare l'imbarazzo, ecco un problema che i social network in parte risolvono: approccio di conoscenza e confronto che poi si porta nella Vita Vera. Succede spesso. Difficilmente a me, curiosa ma tendenzialmente solitaria. I talk potevano essere seguiti in streaming (tecnici e personale ammirevoli) cioè, a casetta mentre si cucina, per dire. Che fosse il caso di fare un BarCamp in cui si parla di tecnologia senza che la stessa ci si sovrapponga? Eppure so che così potrò sempre seguire un tema che m'interessa. E non ho mollato il Blackberry un secondo.

Le conversazioni si possono seguire qui, qui, qui o anche qui; abstracts, notizie, riflessioni nel blog del RomeCamp; le foto, quando ci saranno, qui. L'archivio dei talk qui.

domenica 16 novembre 2008

In cielo l'intero mappamondo delle nuvole



Anzio, parco davanti al mare

D'inverno Roma dimentica di avere vicino il mare. E più che mai domenica. Guido verso Anzio in questa mattina appena velata di strice pannose di nuvole e su tutto un blu accogliente, pensando che sotto i pini schiacciati della Pontina sarò passata tante di quelle volte, sempre con lo sguardo distratto da un amore vicino o dal colore delle terre seminate, sempre con una striscia aperta di finestrino, l'aria intorno che mi riconosce e mi tocca. Strisce di pini, salite e discese, l'asfalto ferito dai camion brontola sotto le ruote. Pomezia, la torre del Comune inghiottita dai palazzoni che la proteggono e rinchiudono come un muro di cinta; baretti e fabricchette, erbacce e spazzature buttate ai bordi della strada, e sempre qualche simpaticone che spinge le macchine a buttarsi a destra e sparisce a duemila verso l'orizzonte, senza alcun autovelox che lo multi.

La Nettunense è una strada che va giù. Con accanto una ferrovia che va giù e un sacco di stradine tronche in uno dei cui incroci sosta, come aspettando un autobus, una donna stretta nel bomber bianco dal cappuccio bordato di pelliccia. Erbacce, platani arrugginiti dall'autunno e la presenza del mare che mi arriva non soltanto ad odori, ma nei colori delle borgatine dalle case squadrate e condonate gialle, rossiccie, color pittura stinta sul cemento. Gli stenditoi non hanno alcun costume colorato appeso. Un ragazzo sosta ad una fermata, bardato con uno zaino da viaggiatore, pesante, e lo sguardo di chi ha dormito in una stazione. Due rotonde con cartelli invitanti al disperdersi. Al porto, van le ruote. Non sirene: le attirano i gabbiani. Al porto.

E che sarà. Ma prima prendo un cappuccino eccezionale. La banda cittadina suona un pezzo davanti al duomo e poi entra, a messa, dispersi dietro i bambini che la circondavano e guardavano come formando già il ricordo futuro con lo sguardo. Gli ottoni al sole brillano e io sono sicura che tutti i santi che hanno da fare con il mare li adorano. L'ottone lucido sulle barche a vela. L'orizzonte pieno di micro-vele di una scuola che è uscita malgrado le ondette insidiose. Le reti avvolte nelle grosse pulegge dei pescherecci. La solitudine delle mura romane, del parco solitario che guarda il mare, dove qualche coppia (la mattina si è più timidi) gioca a rincorrersi sulla sabbia.

La ragazza del bomber sta ancora lì, quando ritorno. I campi verdeggiano di più sotto una breve pioggia. Le stradine laterali si aprono umili, m'invitano a perdermi. Ci vuole il Koln concert, la musica della rassegnazione disperata, della bellezza della solitudine. Non vorrei più andare da nessuna parte. E Roma quando arrivo mi sembra estranea, gelosa di mie emozioni. Cancellata.

sabato 15 novembre 2008

Run, every day every time you gotta run

La pensilina viene verso la mia destra. Luci davanti, rosse e bianche così accecanti che se chiudo gli occhi per un momento, sulla palpebra nera rimangono proiettate come ultimi bagliori di fuochi d’artificio, presi in quell’attimo prima dell’alzarsi di altri colori scoppiettanti: il secondo di attesa del meraviglioso. Chiudo e rivedo i colori nei tempi morti del traffico. I rumore dell’acqua amalgama tutto e ci dice: è un giorno di pioggia. E mi dice: vorrei stare ovattata da qualche parte al caldo. Dalla pensilina si riversano strisce tubolari di gocce come di vetro fuso. Guardo le facce di coloro che aspettano interessarsi brevemente alle macchine di una bisarca, alla maglietta fluo di un ragazzo in motorino, che inzuppato e curvo sul manubrio, si accosta a parlare in un cellulare vicino a me.

- A ma’, adesso arrivo, me so’ preso tutta la pioggia, so’ ggelato – e riparte.

Non portano a te, queste strade. Guardo le macchine così lucide di pioggia da sembrare tutte modellini di un plastico gigante: qua un fioraio, lì una macchia di oleandri, là mettiamo un supermercato, vroom passano i camion alzando l’acqua delle pozzanghere in immense sezioni di circonferenza - e così la mamma ci sgrida, ma come mi sono divertito….. Ma le strade non mi parlano, le facciate sono piatte, le cornacchie sono cornacchie. Una come rassegnazione, un come generale abbattersi delle spalle mentre da qualche parte sconosciuta mi viene su un bruciore di rabbia. Poter vederti perfettamente mentre adesso fai un gesto con la testa e le mani come fossi un danzatore, ma ignaro di esserlo: lontana, la tua grazia mi arriva come un pensiero insistente che tornasse a galla dopo una notte di sonno in cui abbiamo voluto affogarlo. Stringo le mani sapendo che dentro mi sono rimaste particelle di un calore tuo e lontanissimo, che mai si staccheranno perché le tiene unite a me la mia memoria; stringo il volante che mi risponde come un cane; m'immagino che esprima una parvenza di calore, come di consolazione per i giorni che avrei potuto rivederti come in un vecchio album di figurine e che invece furono ingoiati, anche autoingoiati come i figli di Crono. Mentre giro e m'immetto in quel rally cittadino che è Via di Tor Cervara, con i suoi camion bianchi scatenati e le case di riposo dalle finestre sbarrate, mi prometto di non volere più, e poi mi perdono per volere, perché non smetterò mai veramente...

giovedì 13 novembre 2008

Dell'odore della carta e della polvere

Esco dalla macchina con due libri sottobraccio, dopo aver visto un'altra volta le foto di Damiano al bar-vineria del Teatro Biblioteca Quarticciolo, mentre due-tre lettori leggevano nella biblioteca, uno spazio ampio e insieme raccolto, adatto ai divoratori quanto ai meditatori. Percorsa in un lampo la Prenestina sotto una pioggia pigra, e per l'ennesima volta chiudendo la parte brutta della giornata fuori dalla porta di casa, appoggio i libri in mezzo ad altre minicataste di libri letti cui cercavo una citazione, Nòva sfogliati e ripiegati come lenzuola fresche di stiro, cartucce della stilografica, foglietti sparsi con le wishlist / remember / to do / spesa ed altre carabattole.

I libri stanno là come cibo incartato. Il tatto delle pagine è una sensazione pari in intensità agli sguardi profondi che ogni tanto m'incrociano e che sento eccheggiarmi dentro per giorni, come una domanda che abbia suoni di campana nel silenzio del meriggio castigliano. Lo svolgersi di un libro che si racconta sotto le dita è sia un prendere con le bacchette perfetti sushi di racconto che la più carnale delle scarpette fatte sul sugo, lì dove nel libro entriamo, dove di solito penso: "scrive come farei io (in una delle mie tante modalità emotive)". Le ore passano e io dormo sempre meno, un po' perché la fisiologia lo prevede, ma soprattutto perché mi dimentico che esiste il mondo intero mentre leggo, che vive fuori dalle finestre ed incassa il suo prezzo la mattina dopo...

domenica 9 novembre 2008

RomeCamp all for me

Ammettiamolo. Non sono in uno dei momenti migliori della mia vita. Ok.
Ma al RomeCamp ci vado. E scribacchierò da lì, col mio bel BB vintage (è anche sparito dal sito Blackberry, sigh) quanto me.

Seee ya, bbelli.