martedì 28 marzo 2006

Link-o-Roma

Reduce da una visita riparatrice (nel senso che il marmo di Carrara, con la sua perfezione minerale e il distacco zen che lo rendono re indiscusso dei materiali da costruzione, mi guarisce dal senso di futilità e incompiutezza del grigiore quotidiano) nel biancore accecante dei marmi dell'Eur, e cercando storie e immagini da aggiungere ai dettagli, alle nuvole, alle facce degli automobilisti, ho trovato qualche labirinto dove coloro che questa città non subiscono, ma la vivono come un amore parallelo, possono per un po' perdersi...

domenica 26 marzo 2006

Il pittore vero porta il taccuino in tasca



Accademia di Belle Arti, pagella

Quando penso alle mostre e ai concerti che ci sono numerosi a Roma in questo periodo mi viene un magone che da solo potrebbe farmi saltare faticosi mesi di dieta. Tutto, tutte non posso, ok. Ora, perché mi vado a vedere i pittori ottocenteschi, in particolar modo i paesaggisti, che sono i fotografi dell'epoca? Uno dei motivi è che le piccole mostre sono nutrienti anche più dei grandi nomi; un'altro, che l'apprendimento del particolare ritagliato dal contesto segue un percorso leggermente divergente da quello dell'insegnamento al grande pubblico, sicuramente. L'immagine è dapertutto, ora. Allora, era soltanto nell'occhio del pittore.

Palazzo Braschi nel primo sole vero primaverile sembra un innocuo palazzone principesco. Il cortile è sbiancato dalla troppa luce. Lo scalone un po' troppo barocco e carico, mi pesa addosso come ogni dimostrazione architettonica di fasto. Ma varcata la porta d'ingresso, mi sento per benino in una casa patrizia dove nessuno un tempo avrebbe osato fare il minimo rumore fuori luogo; era così, lo sento, fino all'avvento dei cellulari. Le porte hanno stipiti di marmo venato verde o giallo. I bordi dei finestroni e delle porte sono bordati d'oro. Tenui toni di celeste e liste di rosso pompeiano stanno discreti sugli scuri e le porte. Soffitti pieni di fiori o delicate geometrie minimaliste... ah sì, ecco. Sono venuta per la mostra di Caffi.

Rumore di bastoni sul pavimento in noce che cigola appena e, se mi sforzo, sono sicura che profuma di cera. Appoggiato ad un termosifone sta il libro dei quiz per la scuola guida, con accanto una matita rossa. Il custode giovane ripete tra sé e sé concetti di educazione stradale mentre ci guarda passare; vecchie zie e amiche della mamma, con annessa nuora o figlia, seguono la guida che colloca nel giusto luogo storico quadri e paesaggi, come fossero brocche piene di fiori o piatti appena asciugati. Seguo a distanza di rispetto. Molti quadri su Roma sono variamente ripetuti: L'interno del Colosseo, Fuochi su Castel Sant'Angelo, Piazza San Pietro, Piazza del Quirinale con e senza benedizione notturna del Papa e ombre e scintille. Gli acquedotti romani al tramonto che hanno gli stessi colori di adesso. E il Carnevale, ritratto esatto a quello che tanto cantò il Belli: nell'ultimo quadro una madre con il figlio addormentato in braccio guarda lo spegnersi lento dei moccoletti nell’ultima sera prima di Quaresima, davanti a San Marcello al Corso. Ci sono carrozze ferme, carabinieri e i soldati che se ne stanno andando, coppie che si salutano con malinconia... La mostra è lunga, l'occhio quasi annega nei colori, ma riposa nei favolosi quadri notturni, palestra per ogni artista di figurativo: Venezia sotto la luna e Roma che odora di polvere. In un mobiletto a vetri, i quaderni di viaggio, forse tra le cose per me più belle perché personali, perché sempre umane: disegni di navi presi dal vero, personaggi orientali, inchiostro e matita, colori delicati e splendidi insieme. I gruppi si diradano, vanno via. Io mi attardo alle finestre, da dove si vede Piazza Navona velata dalle tende che imitano la garza, e mi sembra di vedere un acquerello...

venerdì 24 marzo 2006

Tiger days

Ho sbagliato a prendere una direzione e mi sono persa.
Faticoso zigzagare nel traffico: sempre, davanti, macchine lente che non sanno dove vanno. Irritazione, impazienza.
Il cielo, impietosamente grigio. Poi, pioggia stupida sugli occhiali. Le scarpe inzuppate.
L'ascensore, rotto. Ho fatto di quella ginnastica raccomandata a tutti: "fate le scale a piedi", ma pensavo: "nemmeno per sogno".
Mi si è bruciacchiata una fettina panata, ero distratta. La pasta scotta, ero distratta. Mi sono seduta davanti al caffé, incapace di capire cosa dovevo fare nelle prossime ore, se dovevo farlo, come, perché. E' uno di quei giorni in cui mi sento gonfia, vuota come un palloncino prigioniero. Ho fame di cioccolato.
Capita, alle donne. E ci sentiamo tigri in gabbia.

Scusate.

mercoledì 22 marzo 2006

Fili, amplificatori, il rosso e il nero

Ci sono molte cose in un palco. Di solito stanno inerti, ma sono invece asservite, soltanto apparentemente inanimate: attendono. La musica sta dentro ai Marshall, si muove lentamente nei fili rossi, si affaccia dagli spinotti e dagli spazi tra i tasti, sonnecchia nei tom e regna invisibile nel theremin dei Transistors. Mentre il La Palma accoglie ombre fluttuanti nelle sue fantastiche file di poltrone rosse, disposte come in un cinema ideale, e le ombre prendono posto cambiando come amebe colore e forma sotto i faretti, Luca e il gruppo stanno in attesa sui divanetti lucidi, infilano accappatoi ideali di viscosa che si risolvono in piume e tanto rosso e nero, ed escono come sempre un po' guardinghi, fissano i fogli cui c'è scritta la scaletta, assaporano la formazione del silenzio.

I musicisti pagano sul palco un prezzo di emozioni: si guardano e si agitano come dervisci che sottostanno ad un rito. Loro sono là dentro e noi sentiamo sopra e sotto le vibrazioni, che passano per terra come onde da terremoto, che scappano dall’epicentro; tra di loro si guardano e si orientano verso lo stesso suono. Tremano le lunghe file rosse sopra il pavimento color melanzana. Tremano le donne, là fuori; i loro capelli lisci, le loro pose studiate i colli alla Modigliani, chi guarda chi chiacchiera, chi sta e basta, e si tengono strette, assumendo l'elettricità come un'ondata d'aria.

Amsterdam. Sempre vicini, e Fetish, e Memento, che tanto mi piace. E' un po' come un concerto per gli amici; è come stare per strada ancora; ma che strada, che viale newyorkese. Jonna non ha fumato un sacco di sigarette e suona concentrato. Il Mamo prende le sue note, ondeggia e gira di 180 gradi per riprenderle da un altra direzione, le lancia a Eugene che scalpita nel suo quadrilatero di tastiere. Simone sta come spesso i batteristi, nascosto al pubblico dietro ai supporti, i cavi, le braccia dei microfoni: e da lì mantiene efficiente il motore che va avanti e ci investe brutalmente elettrificato, acido e amaro come un pompelmo che scoppia tra i denti. Suoni impietosi, implacabili. La voce di Luca, quel sorriso beffardo: cantare in bianco e nero, senza concessioni. Il centro del palco viene occupato da Luke, le mani di Erman - mani saturniane - scrivono nel theremin canzoni di coltelli, di metalli che corteggiano corde e tastiere, e la voce di Miss Ari ci offre le sue molte note nere e le altrettante note british, fresche di club e di estate anni '60.

"Un film – penso mentre mi metto la giacca nera, perché si avvicina l'ora di Cenerentola e devo andare -, è come un film in estate. Fulminei, densi fotogrammi." Mi segue la voce pulita, ondulante; un filo di Arianna che esce con me nella fresca notte, e che mi porto a casa.

martedì 21 marzo 2006

You'll always end up in this city

Uscita dal garage con eccessivo impeto, mi sono fermata a scrivere un sms tentando di ignorare la brutta mattina grigia; poi, ripartita, ho trovato un incrocio intrecciato da un banale incidente. Un ragazzo circa ventisette stava fuori dalla macchina, bello e imbronciato, aspettando probabilmente i vigili. in mezzo a tutte le traiettorie. Una mattina buttata via, si leggeva in questo broncio: strappata a quanto era precedentemente preparato e pensato. L'immagine mi ha seguito sull'autostrada. James Brown mi tentava le gambe - prudentemente non-ballerine - mentre scivolavo in mezzo alle solite file di bellicosi camion e sporchi furgoncini sul raccordo. Sassofoni infuocati soffiavano sul grigio e scuotevano gli alberi scheletriti... Poi il sole ha guardato il calendario, si è stropicciato gli occhi ed è uscito a spazzare. Strisce e polvere di nuvole percorrevano il cielo romano, fuggendo dall'inverno. Gli alberi dei seminativi che confinano con il raccordo erano di colpo verdi, erano esplosi nelle loro piccole gemme tutti insieme.

Ho pensato ad altri tempi e ad altre città, con lo stesso grigio, gli stessi odori, gli stessi o simili ottoni. Ho attraversato altri semafori uguali, visto infinite finestre, congelato sulla carta altri gesti, amato tanti bronci da visi altrettanto belli. C'era lo stesso e insieme diverso scoppio subitaneo di primavera. C'erano le stesse macchine colorate, i camionisti altissimi nelle loro cabine, i treni che curvavano fino quasi a toccarmi in circonvallazioni e lontane stazioni. In tutte ho vissuto senza volerne uscire, perché la città ci disegna dentro un tatuaggio d'asfalto...

lunedì 20 marzo 2006

Mes chers amis,

aujourd'hui, je topodramme...

P.S. Ma dico, provateci anche voi, no?

sabato 18 marzo 2006

Take away!



Melanzane all'aglio

Sarà contento, Berbizier. I suoi ragazzi hanno tenuto testa ai Bleus di Laporte (che quando parla sembra che maciulla le parole) , mentre oggi questi faticano, stanchi e nervosi, contro gli altrettanto stanchi gallesi. Oggi i ragazzi azzurri hanno di nuovo mostrato penosi buchi dell’anno scorso, e da lì sono passati i veloci scozzesi. Merito al biondo, merito a Canale, Griffen, Pez, etc etc. E’ stato un VI Nazioni strano, in cui nessuno è stato più forte in una partita che nella successiva non sia stato sconfortato. I vincitori potevano vincere meglio. In sostanza, mi resta la voglia che sia già 2007, per vedere le macchine micidiali che quest’anno si sono viste in moto…

Meditavo tutto ciò con in mano non un cucchiaio di legno, ma la mano del mortaio inghirlandata di aglio e prezzemolo a bagno nell’extravergine. Sia il suo pungente odore, il valore antibiotico, che li pulisca e rinforzi per l’anno futuro in cui, sono sicura, ne vedremo di toste.

venerdì 17 marzo 2006

Elogio del secondo movimento

Se il musicista è scrittore di emozioni, l’interprete è colui che per lui recita, l’attore che con le sole mani deve riprodurre le luci e le ombre dei sui quadri interiori. Se l’interprete mette davanti ad uno dei suoi due pianoforti uno sgabello rosso, tutto ciò significa che ci sarà lezione di passione, di afiordipelle. Passate le tempeste rinofaringee, la SantaCecilia quasi piena ha seguito in rispettoso silenzio gli slanci amorosi di Beethoven, e anche Schiff, che ogni tanto eseguiva quel delizioso movimento indietro dei pianisti, che vogliono allontanarsi dallo strumento ma a lui restano legati dall’avorio gemello nelle mani, si è tuffato nell’Appassionata senza elastico e senza paracadute, e ci guardava noi pubblico, mentre ci spiegava prima la passione, nel secondo movimento la dolcezza, e nel terzo la nostalgia e la speranza che formano ogni amore. Nel secondo tempo i pianoforti vengono spostati e il grande Bösendorfer dal suono squillante, bianco/nero, nessuna sfumatura ma le note piene, nutrienti, definitive, ci spiega Alla Tedesca il fiore nascente del romanticismo, mentre in Les Adieux un amore maturo e pieno va e viene nel tempo, rinchiuso nella propria perfezione, e ci rimanda placati alle nostre vite normali, là fuori. Ma mi fermo un momento in platea, tra gli ultimi habitués e un gruppo di pompieri, a guardare quei animali giganteschi, severi e potenti che vengono lentamente ammutoliti con pezze varie e protezioni specifiche.

Il parcheggio si svuota velocissimo e il silenzio ne rioccupa i posti. Affianco un taxi al semaforo. Il tassista, un TomWaits con qualche chilo in meno di nichilismo, si passa una mano davanti alla faccia. Poi guarda me che lo guardo. Fisso. Io guardo il semaforo e sento il rumore sibilante delle slidding doors che si aprono, le varie possibilità da svolgersi nei prossimi secondi. Quante volte ho sentito che compivo una scelta? Lo sguardo rimane e dice tante cose. Ma io guardo l’ombra dell’ombra della notte nel semaforo che diventa verde, e lui si perde per Via Aldrovandi mentre io vado verso la città che dorme oltreTevere. Non ci vedremo mai più. Una AlfaRomeo decapottabile porta il suo guidatore verso Prati Sud, tagliando la strada a tutti a Ponte Matteotti. Che sia Matteo Bordone che torna a casa?

Precipitiamo nel tunnel, verso il Muro Torto, tante macchine, macchine nere. Sono là dentro, in quel nero. In quella macchina nera nella quale un ragazzo fa un gesto annoiato e annuente a una biondina che parla al cellulare, la luce bianca dello schermo sul suo collo come un ombra di metallo. Nei vialoni che scendo mentre torno a casa, guardando le luci che vengono verso me come pesci abissali, lenti e minacciosi. Nelle nuvole fatte di pini neri, guardando scogliere fatte di finestre nere. Nel secondo movimento della notte.

martedì 14 marzo 2006

Comunicazione di servizio_15

Due note, purtroppo di fretta: Una, è uscito il nuovo Sacripante. Ci sono anch'io, miracolosamente ancora scribacchina.

E Due, abbiamo i nuovi Bloggies 2006. Quasi nessuno di quelli che avevo votato ha vinto. Comincio a dubitare delle mie capacità (?)... Oltre al Blogger come migliore application for weblogs, è passata la tagline che trovavo più divertente: "Più amore di un autobus pieno di hippies". Blogger nottambuli, cliccate, esplorate...

venerdì 10 marzo 2006

Trasparenza delle dia

Come io mi incanto davanti alle sanguigne e ai tubi di pittura ad olio, così i fotografi non possono, credo, rimanere indifferenti alle diapositive. I colori ottenuti su tale supporto sono quanto di più vicino alla pittura io conosca, quanto di più vicino alla resa della percezione umana. Ebbene, stese su due tavoli luminosi, oggi ne ho visto un bel po', ognuna con dentro il suo edificio, il suo scorcio di mattoni o di bianco cemento a forma di vela sotto il sole, alla Casa dell'Architettura, collocata come un incastro impossibile all'interno dell'Acquario Romano.

Mentre gli impiegati prendono un fugace caffé alla macchinetta o escono fuori smaniosi di captare il sole che sonnecchia in mezzo a veloci nuvole bianche e nere, una diecina di ragazzi e anche me vaghiamo affamati in mezzo ai plastici stupendi (Progetto dell'Ara Pacis di Richard Meier, Centro Congressi Italia di Massimiliano Fuksas, Nuova Stazione Tiburtina di Paolo Desideri) e alle enormi foto tratte dalle dia di Andrea Jemolo. Intorno, l'ellisse perfetta quanto quella del Bernini a Sant'Andrea (ma non quanto quella, contratta, del Borromini a San Carlino alle Quattro Fontane), contiene un loggione orlato di velluto rosso, rostri, quadri e colonne che sembrano tratti dall'Aida, le mura dipinte con quel fresco leggero che sembra fatto di corsa, una scenografia veloce di volute e fiori e statue piatte nei pianerottoli tra i piani. Sotto i piedi, appena varcata la porta, una scritta in mosaico: Salve.

Non direi che il matrimonio tra cotanto kitsch e le molte pulite architetture cittadine degli ultimi 15 anni sia meno che ardito: è bello e brutto insieme, e devo uscire dopo aver guardato tutto, la testa che un po' mi gira, a fotografare gli animali marini fermi per sempre nel loro girotondo a bassorilievo intorno all'edificio. Devo fotografare e tenermi in tasca anche le case gialle e rosa e i colori dei mille magazzini di collane e piume e fermacapelli cinesi.

E devo... sì, devo togliermi da questa Mitsubishi dove sono appoggiata a guardare il cielo. Il guidatore sorride sornione e io faccio la faccia della ragazza innocente, che quasi quasi nemmeno parla italiano. Scatto ancora e vado. Lui parte e suona un claxon basso di saluto come un treno o una nave, sorridendo da sotto occhiali di corno chiaro, mentre mi avvio verso il giallo accecante di Piazza Vittorio.

giovedì 9 marzo 2006

The honky tonk blues



Tangenziale, verso i grandi curvoni, vista da Damiano

La ragazza che cammina davanti a me mentre raggiungo la macchina ha quei capelli morbidi che non hanno mai avuto bisogno di nessun colpo di spazzola, e getta uno sguardo verso un ragazzo dalla faccia larga, i capelli fluenti e una bella bocca. Lui fa finta di non vederla nell'incrociarla. E mentre si allontana altri uomini guardano lei, inevitabilmente, con occhi affilati o in bocca una canzone, con cani al guinzaglio e valigette in mano; ma lei ha guardato soltanto lui e il suo corpo si è chiuso per un po' nella mancanza del corrispondente, il suo corpo che emette piccole curve ad ogni movimento. Passa davanti a tre studenti che guardano lo stesso punto del cielo ognuno piantato indolentemente nel suo metro di marciapiede. Passa davanti alle massaie che guardano cumuli di frutta e verdura - che sembrano "giocattolo" o "gioiello" a una certa loro parte istintuale - mentre pensano a numeri che si sommano e sottraggono in colonne, a ricette, al tempo elastico e al grigiore della mattina che su tutto incombe come un'attesa, una specie di rassegnazione. Un uomo giovane mi attraversa davanti, con in mano il giornale e la bustina bianca dei cornetti, verso una colazione che per migliaia di noi sparsi sulla strada è già lontana. Sopra il semaforo della tangenziale lo stesso aereo di tutte le mattine scende sulla nebbia delle nuvole basse. Piove senza voglia, senza vento. Mi mancano i venditori di giornali che camminano sullo stretto spartitraffico come su una corda tesa a dieci metri di altezza.

Le case che guardano sulla tangenziale sembrano vuote come se fossimo gli ultimi che devono, misteriosa e obbligatoriamente, lasciare la città. Mentre comincio a percorrere il mio arco di curvone, giù sui binari - vuoti e lucidi come acciaio graffiato - un treno regionale percorre speculare e simmetrico un arco contrario, condividendo con me infiniti diametri di una nostra particolare, serena circonferenza.

Io penso sempre che tutto intorno a me sia vivo, vigile: che tutto intorno a me abbia un senso. Tutto vive e scivola sul parabrezza delle macchine, rami e cielo e facce alle finestre che chiamano la primavera; la città si mostra sul retro senza vetri dei furgoncini bianchi o blu, giocando ad allungarsi come un bambino che si veste con le cose dei grandi. Tutto si srotola lì, vetrine e fiancate di guizzanti motorini che tengono per un tempo indefinibile il riflesso dei miei passi o degli sguardi altrui, come ricordandomi che sono anche in un film registrato dalle cose, dalla città che mi avvolge come una sciarpa calda, come un cappio o un abbraccio insperato. Vado nella pioggia cantando il ritornello della canzone che esce dalla radio, prima un tono più alto e poi un tono più basso, e giro a destra mentre il coro galleggia sulla voce di Mick e non vuole più atterrare.

Il raccordo è lento. I campi dormono sotto la pioggia e ci ignorano. Fuggo i grandi camion che sprigionano potenza assassina mentre passo loro in mezzo, una traiettoria millimetrata, per raggiungere l'uscita. I pioppi che delimitano il viale di accesso scoppiano di gemme nuove e si spingono, gonfi, verso il vento.

lunedì 6 marzo 2006

Domani arriverà lo stesso

Fichtre et diantre. Tonnerre de Brest. Sacrebleu, quoi. Et pardi.
Oggi mal di denti. Brr et brrr et pouah.

Buona occasione (aiutata da un'aspirina) per farmi una passeggiata a Ineditablog, the new agorà.
Gli atti del convegno e i "post in venti righe" sono in linea, in pdf.

venerdì 3 marzo 2006

Push me in the water

Mando un messaggio e poco dopo si accende lo schermo e si sente un leggero colpetto da batterista sul crash. Appare una lieve bustina.

Nonsochefaròcredoson
oimpegnatissimofinoast
aseratardicisentiamodo
mani.


Ok - scrivo e invio. Il semaforo diventa verde e mi tuffo nel rumoreggiare e gorgogliare di una San Lorenzo rilassata nel grigio di una giornata di metà settimana. Ragazi e ragazze vanno e vengono, parcheggiano i motorini e si prendono dalla vita o piluccano tra i libri delle bancarelle di Via De Lollis. Ausiliari muratori sistemano i marciapiedi di via Tiburtina come orafi del cemento, e l'uomo della scavatrice è come un incisore con in mano una titubante, ma gigantesca puntasecca che aspetta un gesto per graffiare più o meno profondamente quella precisa lastra di tempo su cui sono concentrati. Parcheggio vicino a condomini scampati al bombardamento, con i loro piccoli cortili interni, le madonnine coperte di rosari, le targhe che ricordano ed esorcizzano quel boato e quel tempo di silenzio prima delle urla dei feriti.

No, non sono ok, non è ok mi dico. Tutto questo è inutile. Non serve voler bene, è sempre un voler qualcosa. Volere è sol soffrire. Una foto di Aldo Fabrizi mi guarda, attonito bambino, da un salone-parruchiere in cui i caschi sono originali anni '50, come il resto. C'è il Bar dei Belli, la Tana dei Sardi, la Casina del Parco e anche un promettente Centro del Pane (Julius Verne, come potrebbe essere il Viaggio al Centro del Pane?). Ma non c'è il Sono con Te. Mi butto giù verso Porta Maggiore per le stradine interne, che sembrano un'allucinazione di periferia dura in mezzo al fermento del quartiere compatto come un formaggio svizzero.

Non volevo scrivere Ok, ma Mi dispiace che non ci sei. Volevo che sentissi quanto mi dispiace. Mi odio e non mi comprendo per non saper usare le parole in modi diversi che per finire, passare ad altro, rimuovere da me le proprie incapacità. Rimugino mentre la fila procede lentamente verso l'incrocio. Vedo su un terrazzo dei panni svolazzanti, colorati. Un rettangolo rosso, un asciugamano forse, trema al vento che si alza e trasloca senza riguardo nuvole grosse, piene di angoli acuti e punte nere. Trema e tenta di liberarsi dalle mollette.

Vola, penso. Va via. Vai via, cuore mio, da me.

Da dietro mi suonano un Cayenne nero, macchine e camioncini e un vecchietto col cappello dentro a un'Apetta. Ma io aspetto fino a che il tessuto si stacca e sparisce dietro le antenne, i comignoli, le curve della tangenziale. Vola come un palloncino scappato da una mano paffuta. Adesso sono ok.

mercoledì 1 marzo 2006

Osmodinamica

Svegliata quattro volte nella notte, spenta la sveglia (non con lo snooze: spenta) e di conseguenza scattata verso il lavoro più scombussolata di un fulmine in ritardo, ho vagato per la giornata come un furgoncino di consegne: di corsa, con le cose da fare tutte sulla gola. Il bagno a 40° è diventato obbligatorio. Ma prima di andare a dormire, una sessione di pixelink.