sabato 30 luglio 2005

Happy Days

Questa mi ricorda una mia vecchia idea che consisteva nello rintracciare, nell'immenso mare dei blog, qualcuno/i che ci colpissero, per includerli nei nostri link. Ma lui ha fatto di meglio, inventandosi una specie di giorno di San Blogger. Un po' mi diverte. Date un occhiata...

martedì 26 luglio 2005

Un po' a me

Di solito a Roma non si corre mai. Le strade sono intasate e tutti vanno tranquilli. Si accetta che le cose stiano così. Si diffida, ci si protegge dalle macchine, si aspetta il verde, ci si infila negli spazi liberi, macchine e pedoni con la stessa elasticità. Si va e basta. Mentre il traffico di Calcutta è forse la metafora di una rassegnazione di vivere che un occidentale non potrebbe mai comprendere, questo fluire morbido e disordinato, che sfida ogni spiegazione, dopo qualche tempo si va incollando, insinuandosi in una zona romana della propria carta d’identità; una zona non leggibile, introiettata. Oggi guardavo da Piazza San Silvestro il movimento lento di furgoncini, scorte e biciclette sparse, turisti biondi e commercianti che vanno a prendere il caffé. Guardavo con gli occhi socchiusi i movimenti delle persone, leggendo i gesti anticaldo: allargare le braccia, scuotere la testa, sventolarsi con il giornale, fare cadere la borsa appena arrivati alla fermata dell’autobus. Io e il mio fido ventaglio sfidavamo l’ora solare a picco. La fila s’ingrossava e dell’autobus non si vedeva l’ombra. Il calore avvolgeva come zucchero filato. E a me questo calore quasi solido piace.

Il portiere di casa mia, come sempre, girava nel cortile con le chiavi dinonsocosa attaccate a uno di quei portachiavi a nastro che si portano al collo. Fa girare il nastro in tondo, mentre passeggia scrutando il viavai dei vicini, come un novello Argo.

- Fa troppo caldo. Al sole, al vento, all’ombra. Troppo. - ho detto a mo' di saluto, tanto per parlare del tempo.
- Sì. E adesso nemmeno puoi accendere il ventilatore, quando sali a casa. Anzi, non puoi nemmeno prendere l’ascensore.
- Come sarebbe?
- Quelli che hanno fatto i collegamenti per i citofoni pare abbiano tranciato un cavo elettrico. Dicono che ce n’è per un po’, prima che lo riparino.
- Un po’? – pensavo al frigorifero pieno di yogurt, carne congelata, gelato – Un po’ quanto?
- Mah. Un po’.

Sono salita, sbuffando come una vecchia locomotiva, e poi ridiscesa a prendere il latte. Il portiere stava lì come un totem, il viso impermeabile.
- Allora?
- Credo che finiranno tra un po’.
- Un po’ quanto?
- Circa un’oretta, non so… - e si è allontanato con passi lenti e grassi.

Non è un po' troppo lungo? mi chiedevo mentre tornavo a casa, sentendo il fresco della bottiglia del latte sul braccio. Quanto è un po'? Perché per me sono dieci minuti e per altri un'ora? Quanto è per quello lì, o per quella, o per il barista, o per il giornalaio, quanto è per l'autista che mi ha portato a casa? Quanto è per voi?

Beh, è un po' che ci penso.

domenica 24 luglio 2005

Nessun amante come il mare


Cupra Marittima, uno stabilimento

Io invidio coloro che vivono in paesi di montagna: chessoio, Pratola Peligna, Sulmona, Cocullo, roba così. Intorno, come una collana o una corona, le curve protettive, materne, ma severe. Alberi infiniti, oppure il nulla brullo delle pendici battute dal vento. La neve, l’assenza di neve: e sempre il silenzio. Quando passo l’Appennino, sentendo insieme il motore - che fa dure fusa – e il silenzio, ho come un sussulto, sento che sto lasciando qualcosa che mi chiama, e scappo con gli occhi pieni di treni che arrancano potenti nelle salite, o dell’urlo bianco dei viadotti che sono come mani intrecciate tra le valli. Poi esco da una galleria, ormai trepidante, inquieta, volendo finire il viaggio: ecco, là, ancora troppo lontano, il mare, quel blu che è colore unico per ognuno, che ognuno può ammantare di diverse definizioni e metafore che insieme fanno un grosso, rotondo sospiro d’acqua.

Mare, mare, mare, voglio annegare…

Il bagnino è incastrato nella sua torricella di osservazione, sonnecchia; un ragazzone abbronzato - che viene tutti i giorni a far lezione in spiaggia - balla con movenze di un misurato sexy, insieme a pubblico ben più scatenato, pezzi di bachata; il barista del miglior caffè della zona spreme, avvitato sulla macchinetta, durissimi e verdissimi lime per l’happy hour; odore di frittura; il sussurrare delle biciclette sulla ciclabile; bambini di una colonia che strillano insieme entrando in acqua; e su tutto il ritmo veloce delle ruote di un merci sui binari: un treno che sembra un modellino, fatto soltanto di piattaforme sulle quali poggiano furgoncini di tutti i colori e allestimenti richiesti alla casa produttrice…

Entro in mare. Lui sembra, come sempre, voler ignorare, distratto da altro. Prolunga una risata tra le barriere di scogli e la fa arrivare lentamente ai miei piedi. Dimena il ventre, là in fondo, e mi manda un’onda d’oro e diamanti e garza celestina. Mi studia salendo dalle caviglie. Carezzo la superficie dell’acqua con le dita come fosse erba alta, grano maturo… e lo sento vibrare, il suo corpo è rotondo, mi bacia freddo dietro al collo rubandomi gocce di rame dai capelli, per poi stendermele sulle spalle, con un clin d’oeil al sole; mi lascia intravedere piccoli gioielli, pesci minuscoli che stanno vicino al cavo delle boe. E così tutti i giorni. Mai uscire, mai; abbracciata, cullata, sostenuta ed intrisa, e non voglio sentire i piccoli morsetti delle ultime ondine tristi, quando esco, stanca e ritemprata come dall’amore, verso la sabbia calda.

Ma le montagne mi aspettano sempre. Loro sono immutabili, e sanno che tornerò. In preda già alla nostalgia, con negli occhi piccolissime lacrime salate - un ricordo del mare che tutti siamo - affronto di nuovo i loro fianchi, la conquista delle curve difficili, e dall’alto, vittoriosa come un bambino quando compie un’impresa che fino a un attimo prima gli sembrava impossibile, saluto il mare. Lui, infedele, si cartolinapostalizza ad ogni momento di più, fino a quando non siamo di nuovo due perfetti sconosciuti, come tutte le volte. Scendo e faccio che la mia macchina esprima quello che sento: metallo duro e fragile, velocità e paura, gli occhi pieni del paesaggio, che mi passa davanti come tutta una vita.

sabato 23 luglio 2005

Return to sender

Hmm. Quante tele di ragno in questo blog... Appena tornata e già nostalgia del mare. Via, apro le finestre, lucido un po' i vetri. E scriverò, dopo.

venerdì 15 luglio 2005

Ci sono o ci faccio?


luce d'estate

Ci sono vantaggi e svantaggi, a fare sempre la stessa strada per andare al lavoro. Io l’ho ritualizzata, come spesso faccio con gli spostamenti sempre uguali: andare e tornare dalla scuola aveva i suoi punti fissi di sosta o di sguardo, che cambiavano con le stagioni: le piazze, i giardini, la gelateria. Più avanti nel tempo, c’era sempre un certo tabacchi dove comprare le sigarette, pieno di gente che m’incuriosiva, un bar dove alle volte facevo colazione, l’edicola dove compravo il giornale. Adesso, quando arrivo al semaforo della tangenziale, nella breve sosta del rosso si accumulano e aspettano una serie di momenti sempre uguali e sempre diversi. Lo sguardo spazia verso i binari che significano viaggio, là sotto i viadotti; oppure studia la conformazione delle nuvole, che parlano del tempo che farà nella giornata. Acquisto velocità, come fossi su una pista di decollo, e quando entro nel tunnel Pittaluga, c’è la trasformazione: lì dentro si cristallizza il movimento che cresce, che va e viene verso la città e che sento vibrare intorno appena uscita, quando abbasso i vetri dei finestrini ed entra l’aria freschissima della mattina. Le gallerie sono luoghi di scambio: entri con una luce ed esci in un’altra, oppure con la pioggia ed esci al sole, passi dalla campagna alla città, da un quartiere ad un altro. In quel momento nero, in cui devo ridurre la velocità o acquistarla per uscire, c’è la metafora di una sosta, di un reset mentale; non esco mai uguale da come sono entrata. Una volta fuori, le mani si affannano a cercare musica nella radio, spostano il volante, aumentano la potenza di marcia. Dagli occhi allora mi entra tutta la strada, una visione a 360° di tralicci e lampioni, di orticelli e oleandri, di decapottabili e camion della spazzatura, di foschia e montagne viola. Ma soprattutto sento la velocità, qualcosa cui non potrei rinunciare, mia e delle cose intorno a me: sento che tutto si sposta e io con il tutto...

Ecco. Era un autobus enorme, con i suoi specchietti giganteschi. Vorrei andare lontano. Nessuno pensa che queste (e altre) aziende siano le equivalenti dei mitici Greyhound...

Evabbé. Adesso vado...

Tornerò tra qualche giorno...

mercoledì 13 luglio 2005

We all scream for ice cream

Nel primo pomeriggio di un giorno dal cielo confuso, pieno di spatolate di nuvole insicure tra il bianco assoluto e il grigio teppista-minacciatore di pioggia, l'incrocio di Viale Manzoni mi rallenta, strapieno com'è di motorini svagati (chi fuma il toscano mentre parla con un amico che porta uno zainetto trendy sul completo blu di lino; altri si aggiustano capelli e caschi, un stacca la scarpa per far respirare il tallone calzinato; un'altro si appoggia alla portiera di una Panda da autoscuola ferma a un semaforo e parla con l'istruttore, mentre l'allievo sfodera un bel sorrisone mentre pensa: "e mo' che famo?"), e scopro che una piccola escavatrice ferma, con sopra una ragazza mora, seria nel suo giubbotto riflettente arancione, blocca come un meteorite l'accesso a via Giolitti dalle parti dei Laziali. Vari tipi incanottierati scavano due trincee parallele. Riesco a divincolarmi dalla trappola macchine-e-motorini e parcheggio a volo, visto che una piccola macchinetta abbandona un posto blu. Gratto l'argento del bigliettino anti-multa e raggiungo la Fassi.

Per chi non la conosce, la Fassi è una gelateria antica che, contrariamente a tutte le altre rinomate dispensatrici cittadine di gelati (faccio eccezione soltanto per Giolitti, che possiede il fascino decadente delle strade intorno ai palazzi del potere, e custodisce i suoi sapori con signorile discrezione ) non sta in un locale di media grandezza, bensì in un vero hangar dove entrerebbe tranquillamente un elicottero. Un tempo c'erano le pale dei ventilatori sul tetto, ed era tutto bianco, senza i quadretti che raffigurano ritagli ingranditi di giornale, c'era il giardinetto con i suoi affreschi buffi (ora zona fumatori) di stile egiziano, qualche tavolino, e il bancone nuovo pieno dei loro gelati, come oggi. Gli occhi mi si riempiono ancora quando vedo guizzare l'acciaio dei contenitori appena usciti dalle montapanna, carichi di quella-cosa-bianca; e non avrei timore di metterci le mani, novella Totò, e mangiarla così, da cannibale. Invece siamo ordinati, come sono ordinati gli eredi del fondatore, che vicino alla cassa tengono sempre il catalogo vivente delle misure delle coppette e delle vaschette-a-portare-via. Quando mi siedo sui suoi tavolini di marmo nero venato di un giallo burroso, non sbiancato da nessuna pasta abrasiva, dimentico tutto quello che mi sta intorno, e sento il puro sapore del gelato, o del caffé con la panna, o delle granite dai colori spaziali. Se ho sete, ci sono dei bicchieri e una fontanella. Panchine e spazio per tutti. Un'oasi. Oggi, come con tanti altri tante altre volte, due amici hanno condiviso l'ombra fresca, i rumori ovattati, i luminosi colori.

Arrivata a casa ho spacchettato una vaschetta da 6 etti circondata da ghiaccio secco. E' una cosa che ho trovato soltanto lì. Con un martello che avrà tanti anni quanto il locale, l'addetta ha frantumato un bel pezzo, guardandosi molto dal toccarlo per troppo tempo (brucia) e lo ha messo sopra e sotto. Io ho corso subito a mettere i pezzi in dei bicchieri e li ho riempiti di acqua. Fuoriesce subito un fumino da laboratorio delle streghe e fate. Il ghiaccio bolle. Mangio una cucchiaiata di malaga; sapore pieno, quasi alcolico, forse le ciliegie candite. E lascio lentamente svanire l'incantesimo, mentre il tramonto si ferma un attimo a guardare...

sabato 9 luglio 2005

Everybody's got a hungry heart


notte blu

Accosto. Tutt'attorno un silenzio assoluto. Soltanto le cicale, coltelli che si sfidano nei tramonti d'estate. L'asfalto è giallo, il cielo anche; soltanto una linea divisoria di alberi, tutti intenti a conservare l'oro che il sole lascia nelle foglie, separa il sopra e il sotto. Appoggio i gomiti sul volante morbido. La fronte pesa, sui palmi delle mani, piena com'è di pensieri di te che si accumulano in una memoria costantemente updated. So di dover fermarmi, in questo viaggio eterno verso l'intensità; fermarmi qualche volta, addentare un panino, disperdere il calore, dare un calcio alla ruota, appoggiarmi al cofano e sognare che stai lì, la porta del passeggero aperta, un piede fuori e l'altro sul pavimento della machina, avvolto nella nuvola di buon tabacco virginiano.

Viene su per il costone un nuvolone bianchiccio che rende solidi triangoli di luce del sole che stanno paralleli dietro gli alberi. Qualcuno brucia rami di pino, zaffate di un odore acuto. Riparto. Macchine nervose mi lampeggiano. Vorrei correre anch'io, verso te, e nascondermi in un angolo della tua ombra, che ingigantisce lentamente sull'autostrada diventando notte, la notte amica, sorella, infinita.

Comunicare non sempre serve ad avere le informazioni necessarie per continuare. E io non voglio comunicare, no, dico allo specchio in bagno, appena arrivata, spogliandomi dalla polvere accumulata in piccoli gonfiori e tracce raggrinzite di lino e di cotone. Voglio che continui il silenzio che custodisce quelle esatte parole che dovremmo dirci in un tempo ancora non concepito. Voglio che i binari non si tocchino, ma che a tutta velocità s'incrocino, vicinissimi, lasciandoci quello scoppio nel cuore in cui siamo uno con l'altro. Voglio un breve momento in cui spegnere quasi tutta la sete.

E poi ritornerò vegetale, senza pensieri, senza null'altro che la ripetizione. Un autismo di te.

Mi mordo le unghie

Le saghe? I romanzi a puntate? Episodi I, II, III? Nulla, rispetto a questo mistero. Io non resisto alla curiosità. Ma perché Pinnacolo odia il numero 98? Tentate di capirlo voi, da the truly master of mystery & humour, come sempre: R:ob Grassilli.

giovedì 7 luglio 2005

Una busta, un pacchetto, un carrello

Io ho scritto subito "London blasts" sul solito. Anche la BBC riconosce ai blog il lavoro di informazione che i siti dei giornali e le agenzie, sovraccarichi, non riescono a svolgere completamente. Comunque, queste sono quisquilie. Come a Madrid, penso a quelli che lo hanno vissuto, che sono vivi. E penso a quelli che lì ci sono rimasti, alle loro storie. Un cornicione può cadere in testa a chiunque in qualunque momento. Ma non sono d'accordo con questo. Mai.

mercoledì 6 luglio 2005

Niente concerti, ma soldi

Seguo questa faccenda più o meno da quando ne ho avuto notizia. Pensate cosa succederebbe se veramente (e lo spero di cuore) non soltanto funzionasse, ma potesse essere vaccinata tutta la popolazione africana e asiatica a rischio. Se potesse essere trovato un vaccino simile per le epatiti B, C, D ed altre che distruggono il fegato e la vita di tante persone. Se grazie a questo i produttori di medicinali la smettessero di fare degli antiretrovirali un affare lucroso. Se con questo un genocidio "per omissione" (di informazione, di attenzione, di denaro, di posizioni politiche) potesse essere fermato...

martedì 5 luglio 2005

Mangiona io? Ma va...

Raccogliendo l’invito di Falsomagro, con cui dividerei in due un buon filetto (io ci farei qualche tournedos…), rispondo alla catena dei cuochi-e-mangioni.



1-Il tuo primo ricordo di te stessa cucinando?
Più che cucinando, mi ricordo alimentando il fuoco della cucina economica di casa, almeno finché i miei non rifecero tutta la cucina a nuovo. Poi ricordo mia madre che faceva il burro con la panna del latte, a mano, e io che aspettavo per mangiarmelo sul pane. Il primo ricordo vero: Una cucina scura, una grande padella e le patate con la cipolla tagliata, che si scioglievano nell’olio, che si miscelavano con tante uova, che diventavano frittata alta due dita; la frittata spariva fuori, dal banco del bar in cui faceva bella mostra, tagliata a spicchi su delle fette di pane, insieme a tutti quei stuzzicchini che da noi si chiamano “pinchos” e si mangiano con una birretta o un bicchiere di vino prima del pranzo o la cena. Poi qualcuno dei baristi urlava in cucina “sta per finire la frittata!” e ne facevamo un’altra, e un’altra, e così per molti giorni.
2-Chi ha influenzato di più il tuo stile culinario?
Mia madre, of course. La cucina francese classica. Ma anche i connubi mare-e-montagna della cucina basca (il merluzzo ripieno di funghi e verdure, ad esempio; il tonno con peperoni e patate), e tutti i piatti rustici e saporiti (il brodo, il pane fritto nello strutto) della mia Castiglia genealogica. Da lì pure mi viene l’amore per la carne mangiata fresca di macello.
3- Possiedi del materiale fotografico che possa provare un interesse precoce per il mondo culinario? Te la senti di farcelo vedere?
No, purtroppo. Non si può parlare in me di un interesse precoce; cucinare è piuttosto una necessità di base ma anche, alle volte, una operazione artistica (la buona cucina è arte). Potrei podcastare un sacco di buone testimonianze sulla mia cucina, ma non è rimasto più nulla di quello che ho cucinato.. ;-)
4- Hai qualche fobia culinaria? Un qualche piatto che solo a pensarci ti viene il sudore?
Una torta al Sauternes. La ricetta sembra semplicissima, ma per due volte è andata male. Il vino è meritatamente costoso e talmente buono che le due volte finì bevuto con gli amici che erano venuti a pranzo. A me i dolci vengono bene se non ci penso, se vado a intuito. Questa torta invece m’impressiona e ancora non sono riuscita a farla.
5- Il gadget in cucina che funziona meglio / quello che ti ha deluso di più?
Il Kitchen Aid che aveva mia madre nella sua cucina di lavoro. Solido, elegante, fa ogni cosa, se serve. Deluso: gli sbattitori elettrici, i frullatori. Preferisco la forchetta, il passaverdura.
6- Un abbinamento cibario strano che mi piace e che probabilmente non piace a nessun altro...
Mmmh.. Pane (dalla rosetta al carasau) e salmone affumicato senza burro, senza aneto, senza nulla.
7- Quali sono le tre cose commestibili senza le quali non potresti vivere?
Pane, carne, verdura fresca. E aggiungerei il sale (anche se non è una cosa commestibile, bensì “un sale”, un composto chimico..).
8- Tre domandine al volo:
Il mio gelato preferito:
Vaniglia, crema alla.
Non mangerei mai:
Insetti, serpenti, oloturie e simili.
Il mio piatto/firma:
La frittata di patate (alla spagnola, cioè alta due dita e con molta cipolla). In alternativa, una paella improvvisata che mia madre faceva la domenica, in cui ci andava soprattutto molta verdura fresca di stagione, pollo, calamari, merluzzo; gnammm….

Questa catena, poi, la vorrei continuare. Provo a passare il testimone a Spuma, Isabella (scatole permettendo), Suiseki (quando torna), e Manu, perché sono curiosa di sapere come cucina una scrittrice...

venerdì 1 luglio 2005

Un altro giro in mezzo al sudore

Tutto il cancan di Live8, con i badge e la raccolta di post, mi aveva lasciato sin da subito perplessa. Io non amo le megamanifestazioni mediatiche, per nessun tipo di propaganda buona o cattiva. Non amo la pubblicità. E so che, umanitariamente parlando, si muovono benissimo organizzazioni che capillarmente, quando glielo si permette, agiscono in modo positivo nelle zone africane che sono vergogna del comportamento del genere umano. Volevo essere una blogger solidale, ma è troppo.

Perciò, prima confortata dai links di un post di Luca, da Julio Alonso e soprattutto dalla squisita equanimità di Loic, che ha postato ugualmente link ai sostenitori e a quelli cui l'evento fa lievemente alzare il sopraciglio, ho deciso di riflettere e seguire un po' il dietro le quinte della discussione blog non sull'evento (i giornali ne danno abbastanza rilievo a tutti i retroscena, almeno per quanto riguarda il concerto italiano) ma sul debito, sulla fame, su come e dove vanno a finire i soldi. E soprattutto leggerò, con un po' di fatica (perché l'inglese mi è ostico, ma se del caso lo passerò nel tritaparole di Google), tutti bloggers africani che posso trovare, come per esempio indica l'autore di questo post (via Loic).

P.S. Comunicazione interna: onde evitare che questo blog si trasformi in un frullatore di pianisti e pianoforti, ho prestato a Damiano un pochino di cronaca del concerto di ieri. E guardate le foto, o vi cadrà almeno un dente (la fatina dei denti non esercita oltre i 8 anni di età).