lunedì 30 maggio 2005

I'm just an animal


Scendere per una strada di montagna ha una magia che è tutta in una linea: la curva. Mi piace lasciare le marce libere, scendere in folle nelle paraboliche, tenendo le redini dei freni lievemente, come al trotto. Il movimento è carezza che il mio corpo segue, è un cullarsi cadenzato, consapevole: quella leggerezza delle curve in moto, con i corpi che si tendono nell’obliquo equilibrio di forze mentre la terra si avvicina e sembra voler saltarci sulle spalle e nelle ginocchia, sembra voler venire via con noi. Ci sono curve ad S in cui mi sento come una mano che massaggia una schiena, che circonda una coscia, che lancia su è giù la musica da un vinile. Salgo e scendo in piccolissime montagne russe di curvette brevi, dai bordi rialzati come in un piatto di coccio fatto a mano. Mi sembra un gioco di folletti e insetti che si buttino di notte sull’asfalto in piccolissimi go-kart modificati, ma che adesso sono nascosti nelle rose bianche che una donna taglia dalla siepe che costeggia la strada. Il motore romba frenato dalla sua stessa potenza, lanciato come la pietra di una fionda: un gesto e sono già di nuovo al centro della carreggiata, sterzo pronto, sorriso tenuto fermo dagli occhi che incessantemente calcolano traiettorie, peso e velocità.

Entro nelle gallerie alla fine delle curve lunghissime dell’autostrada, mi ci lascio andare come a un bacio o al sonno. Roma si estende laggiù come una risposta, combattuta tra la pioggia dispettosa e la calura sulfurea che grava su Tivoli. Mentre arrivo al casello sento la metafora che i miei movimenti ripetono da ore: una spirale con cui ti circondo di pensieri, nella quale abita la polvere dorata di mute parole assolate. Ma dov’è il punto in cui le parole finiscono? Quanto è il tempo che ci è stato dato? Chi sei tu, macchina che da me si separa, nella perfezione della parallela finita, uscendo dall’altra parte del raccordo? Le mie spalle, dopo tanti chilometri, si rendono sensibili. Ma a me piace pensare che sono abbozzi di ali o di pinne che mi crescono e chiamano al mare rovesciato, dorato di tramonto…

ImBB#8, chez Comida

Ah, io sono noiosa, non elaborata. I finger food preferiti mentre aspetto che Rob posti la 500sima Net to be?
(e che attesa, signori... ho una fame...)

Pane azzimo spezzato con un velo di burro e del buon salmone affumicato.
Pane azzimo spezzato con dello stracchino semiliquido, non troppo freddo.
Pane azzimo spezzato con tonno e cipolla tagliata fine.
Lo stesso con il pane carasau, quando ho voglia di un sapore più deciso.

Ma anche, su fette di baguette, quando necessario tenuti da uno stecchino:
Funghetti trifolati aglio e prezzemolo con la loro salsina densa che inzuppa la fetta di pane
Insalata russa, una bella cucchiaiata messa sulla fetta come una piccola cupoletta
Quadrati di frittata di patate e cipolla alta due dita
Gambero e mezzo uovo sodo su un velo di maionese

Si, potrei andare avanti. Ma è meglio se leggete anche le ricette degli altri...

venerdì 27 maggio 2005

Comunicazione di servizio_6

Sono fuori il fine settimana, senza collegamenti di nessun genere, né libri, né taccuini: una specie di defrag per prepararmi all'estate. Qualche giorno dopo, qui si parlerà di blogs nuovamente, ma con il pepe del gusto per il buon mangiare e bere. Visto che io smanetto qualche volta con le pentole e le padelle, sono curiosa di sentire gli amanti della buona cucina parlare di blog come veicolo d'informazione migliore rispetto agli altri media del settore...

mercoledì 25 maggio 2005

La leggerezza delle catene

Invitata da Damiano, raccolgo il testimone e corro i miei ultimi metri prima della meta.

1 - Il volume totale dei file musicali nel computer:
Pochi giga. Ascolto cd, cassette e radio via impianto hifi.
2 - L'ultimo cd che ho comprato:
Ultramarine di Sebastiano Cognolato.
3 - Canzone che sta suonando ora:
Los Angeles II, da “Places”, di Brad Mehldau
4 - Cinque canzoni che ascolto spesso e che significano molto per me:
Cinque è quasi impossibile. Ci metto "cinque che quando le ascolto sento il tempo"

Non, je ne regrette rien, di Edith Piaf
Happy, dei Rolling Stones, e tutte le altre di Exile on Main street
Yira yira, de Carlos Gardel
Le canzoni di Ospital eta Carrere, cantanti bascofrancesi
When i fall in love, ma anche tutte le altre dai film di Marilyn Monroe
Arie di Donna Elvira, nel Don Giovanni di W. A. Mozart

5 - Passo il testimone a:
Nessuno. Volevo, ma di solito i miei contatti (e per questo lo sono) non sono grandi frequentatori di catene e staffette, ma dei pigroni bonari, o sarcastici, o semplicemente dalla vita accelerata...

Ah, e datemi un bicchiere d'acqua...

martedì 24 maggio 2005

La propagazione del meme

Sarà che io sono principalmente curiosa, e appena ricevuto l'invito da Damiano (che onorerò appena posso), mi sono attivata via Technorati sia per vedere da dove era iniziato il correntone, da dove è stato preso in Italia e da chi, sia per capire come stava andando. Risultati: partito qui (credo, eh? provate voi a fare meglio) a febbraio, il musical baton (629 post) o relais (170 post) o staffetta (47 post) o testimone (189 post), arriva in Italia e da qui, credo (provate voi, etc. etc.) si estende alla velocità di crescita degli oleandri e la parietaria. La cosa curiosa è che nel frattempo da tre blog a cui passare il testimone si è arrivati ai cinque e si è perso il lato personale di "perchè passi a lui/lei il testimone?".

Da notare che il primo che ho rintracciato, e che lo ha chiamato "musica nella mia cucina" è un blogger gastronomo. A prova che chi sa sentire, sa odorare, vedere, mangiare, toccare... Comida ne sarebbe deliziata...

lunedì 23 maggio 2005

Ad ognuno le sue madeleines

Dovrei lavorare adesso, senza curarmi della cena. Il canone dice: un'ora al giorno, alcuni di mattina, altri alle 2 nel silenzio, altri appena dopo un bagno caldo, altri nel primo pomeriggio; c'è chi si porta dietro un'agenda, un quaderno e ci scrive dentro IL libro in un giorno, in una notte, in un mese. Beh, porcamiseria, a me non basta tutto ciò. Bisogna cedere alla direzione del pensiero e non c'è ginnastica più difficile, più ottusa, per la mente separata dal corpo dalla realtà. Mi sento così assurda mentre a velocità supersonica metto la freccia destra e curvo e strido e tiro fuori il taccuino per scrivere una frase, una parola con a sinistra il trattino, che la rende protagonista, soprano principale nell'opera degli appunti. Oppure di nascosto mentre finisco il caffé e mi devo sedere un secondo sul tavolino pregando che i movimenti dei camerieri dietro il banco - movimenti di denaro, il tavolino si paga il doppio - cessino appena mi sarò alzata e come se niente fosse, seppellendo il taccuino nella borsa, chiederò alla cassiera quanto devo? Tutto così, un incessante ballo di foglietti, che poi mi tocca riordinare mentre la domenica pomeriggio sfuma in una nostalgia che sa di vacanza e di estate finita. Perchè in fondo non so scrivere se non a pezzi piccoli sbocconcellati, perché appena mi allargo trovo subito un osso in forma di appuntamento o uno squillo di telefono o l'alzarsi di volume di una televisione, e devo alzarmi dal tavolino e spegnere il forno e chiudere le imposte e farmi un caffé. E penso a tutti gli scrittori grandi e piccoli che portano avanti la loro vita creativa chinati sulla deliziosa piscina bianca del nulla, al loro eterno raccogliere e riseminare mentre camminano il loro tempo definito soli, pieni/vuoti e fieri. Ognuno con i suoi libri dentro di sé.


Le madeleines proustiane

domenica 22 maggio 2005

Io dico a me stessa la buonaventura

Una cosa mi disturba di Roma: alcune periferie. Quando devo per forza andare nelle strade di Boccea o dell'Aurelio estremo, mi sento come un personaggio letterario che entrasse di mattina presto, con sopra dei nuvoloni minacciosi, in un bosco appena ripassato al napalm. Dopo aver scivolato attenta e tesa sulle chicane dei lavori del raccordo - mentre con le code degli occhi vedevo alternativamente risalire l'indicatore della velocità e l'aprirsi di squarci nei campi, di burroni dietro i new jersey, statue di lavoratori con torsi non belvederiani arrostiti dal sole, e le Cat che girano come animali da incubo - sono finita su stradine sghembe, senza vie di uscita né possibilità di tornare indietro se non rifacendo uno o due chilometri e ricevendo claxonate su claxonate, nello stile del tipico sistema di viabilità capitolino, che molti risolvono con brutale inversione a U o altre manovre non meno spettacolari. Ho visto palazzoni orrendi nascosti dietro le sterpaglie e le robinie, come ragazze-di-mestiere un po' troppo attempate, pronte al ritiro. Persa, ho rifatto strade e incroci pieni di buche, dissestati, mugugnando in tre lingue; sono ritornata finalmente su Viale Boccea dove un sole ancora in prova di romanità tentava di rendere belle facciate e palazzi cementati, squadrati, senza personalità. Via, via. A Piazza dei Giureconsulti una bandiera della Roma campeggia improvvida sul terrazzo di un attico difeso dai rampicanti: la fede è fede. Via, via. All'incrocio con Via Baldo degli Ubaldi due lavavetri, lei con i capelli ossigenati, si baciano e ridono, le macchine passano, e mentre li guardo e memorizzo vado a infilarmi in una corsia preferenziale che scende caracollando, di nuovo Aurelia, fino alle mura Vaticane.

Ah, sono a cavallo, entrando in Roma nel pomeriggio in mezzo a li carretti e li mendicanti; una zingara sola, travestita per non essere scoperta, il pugnale nascosto nella cinta. Rallento per guardare il colore dorato dei mattoni, per sentire il silenzio che si cela dietro, appannaggio dei papi. Monaci e suore vanno e vengono come un incessante scorrrere di rosari. Tendaggi rossi fluttuano dalle logge lontane di Castel Sant'Angelo. Sotto, come un piccolo gregge, il Borgo dalle case stratificate, dalle quali si alzano rivoli di fumo, mentre vengono su di colpo tutti gli odori sventagliati dai platani dei lungoteveri. Nulla è diverso sotto l'asfalto: il colle scende sempre verso il fiume, come sempre. Tanti turisti, sempre, pronti ad essere immortalati in una oggi silenziosa San Pietro, scendono dai musei, ciondolano dietro al colonnato, guardoni degli svizzeri in divisa blu, discreti vigili di Porta Sant'Anna. Via, via. La mia velocità è una carezza clandestina che mi viene ridata. tutte le volte che torno a casa...

Non resisto a queste cose

L'ho già citato, Luca Conti, come attento e preciso nel pescare le notizie che riguardano i blog o anche i geek ed altri animali variamente ibridi. Questa volta si è divertito con questo giochetto, che ho adorato e sperimentato subito...

Notizie su Firenze, dove non sono potuta andare (e mi sono rosicchiata fino al gomito) ed in particolare sul social software e la cultura blog, appena ne avrò selezionato un po' di buon materiale.

venerdì 20 maggio 2005

Può nuocere gravemente alla salute

Quando la mia macchina è andata, nel sogno, a schiacciarsi sotto quel tuo ridicolo camioncino rosso, stavo ascoltando una canzone di Brad Mehldau, ed ero così ferocemente concentrata nel sentire l'effetto delle note (insieme pugnali e odori di dolci), che non ho visto nulla, soltanto le facce dei tre bengalesi nel camioncino che veniva in senso contrario diventare tutti e tre dello stesso colore, e anche gli occhi spalancati di una ragazzina sul cinquantino, che ha frenato davanti alla portiera mentre affondavo sotto le lamiere, al rallentatore. Adesso sto sdraiata sull'asfalto, mi sento leggerissima: sopra vedo una casa con una cascata di balconcini rotondi appoggiati come fossero di marzapane sull'angolo, mozzato; un'architettura tra Garbatella timida e Ventennio acido. Sento molto vicini i passi delle persone; è un tambureggiar confuso, deprimente, che mi da fastidio mentre guardo il cielo così azzurro, le nuvole così bianche, un mare rovesciato che mi entra negli occhi e ci rimane anche quando li chiudo.

La solitudine è un bisogno dello spirito. Dopotutto, se l'asfalto sotto di me si muove e sussulta sarà perché voglio svegliarmi e non essere curata, trasportata chissà dove: nulla può guarirci, noi che sentiamo troppo, a cui non basta il modo normale, perché abbiamo bisogno di illimitato... Mi sveglio in un buio assoluto, un calo di tensione nel palazzo. Sento un uomo e una donna, svegli da qualche parte; brani di voce e risate entrano dalla finestra aperta come forme regalate dalla notte, avvolte nella brezza freschetta di un maggio che fa il ritroso all'impaziente Apollo dell'estate. Vado in cucina - percependo con le mani stese davanti, come una rabdomante, i vuoti e gli ingombri dello spazio - a farmi un caffé freddo, e nel mentre chiedo agli dei del sonno, abitanti nell'oscurità, di farmi sognare ancora; sognare di sorpassare il camioncino rosso, di lasciarlo alle curve interrogative, allontanandomi veloce come un riff di chitarra, verso il mare.

giovedì 19 maggio 2005

Comunicazione di servizio_5

Daffeddore allergico. Sorry, per oggi.

mercoledì 18 maggio 2005

Il filo nell'acqua_2

Una strada buia la obbligò a rallentare. Si fermò in mezzo. Voleva piangere, voleva piangere e insieme non voleva cedere. Non voleva piangere, non per lui. Il dolore era intenso. Prese a pugni il volante. Poi ingranò la prima e prese Viale Trastevere, assordata dalla radio, e salì fino al Gianicolo. Nello spiazzo della chiesa degli Spagnoli c’erano delle macchine parcheggiate, che le sembrarono vigilanti. Alina spense le luci. Un leggero chiarore si alzava sulla città, e la notte se ne andava ignorando la sua bellezza. “No”, pensò Alina, “le ha fatto onore. L’ha visitata, l’ha carezzata, l’ha fatta felice, un bacio di addio e poi il giorno miserrimo, inutile, fatto di attesa della stessa interminabile notte di amore”. Spense la radio ed il silenzio le piombò addosso come una coperta calda. Si carezzò il collo, si stiracchiò. “Devo calmarmi o impazzirò”. Sentiva il freddo della mattina che entrava nella macchina, si sedeva vicino a lei. Il giorno spiegava sul cielo dei colori indefinibili. Restò così, ad occhi chiusi, abbandonata, finché tutto intorno a lei non fu completamente pieno di luce, e allora scese dalla macchina e respirò abbracciata a se stessa, autoprotetta, l’aria del mattino. Non aveva più pensieri, e sapeva di essere come una pezza lavata, esattamente come una pezza da spolvero lavata, che aspetta nel suo cassetto la propria razione di polvere, di utilità. Riaccese la radio per sentire le voci dei notiziari, per avvicinarsi lentamente all’umanità che aveva abbandonato nell’ultimo momento della notte. Guidò assorta fino all’azienda, attardandosi soltanto un attimo per ricevere la sferzata del vento che spazzava il piazzale di parcheggio. Poi entrò e timbrò. Erano le 7:51.

martedì 17 maggio 2005

Il filo nell'acqua_1

Le piaceva guidare di notte. La città si apriva come un viscere, silenziosa sotto le luci che sembravano più intense. Alina percorreva i viali deserti fermandosi ai semafori, incrociava pallidi sguardi di giovani all’interno di altre macchine gemelle nel loro strepitar di bassi, si attardava a guardare una donna che tornava a casa sfiorando i muri, oppure i lavoratori dei camion della spazzatura, i fiorai notturni. Percorreva la tangenziale, con la radio a tutto volume, puntava sull’autostrada verso Firenze. Poi, al primo svincolo, tornava, faceva una sosta a prendere cornetti alla pasticceria austriaca, vestita di nero fino al collo, gli occhi cerchiati dal disamore. Solo così, girando nella notte, si diceva, riusciva a dominare la sua sensazione di incompleto. Lui non l’aveva cercata, nulla era successo, di nuovo la settimana era finita, di nuovo i viali vuoti l’accoglievano. Sentiva salirle il bruciore del desiderio fino alle orecchie. Il desiderio era una brutta bestia, che l’attanagliava fino a farla soffocare. Insieme sentiva il dolore più intenso dello spirito, un lento parto interminabile che sapeva si sarebbe calmato per un po' dopo qualche notte di buon sonno. E temeva il momento in cui l’avrebbe rivisto, e temeva il momento in cui le sue sensazioni, cavalli purosangue che lei tratteneva con mano dura, si sarebbero disperse all’interno del suo corpo per bloccarla, per nasconderla, per rifugiarla in un coma profondo; e lei si sarebbe stesa lì dentro, per apparire perfetta, sorridente, inusualmente sobria, ironica, mentre gli bruciava il sangue di un desiderio folle di toccarlo, di sentirne il calore, di placcarlo contro un muro e non permettergli di parlare.

Rimuginava, mentre le strade le si prostravano dietro la macchina, su come ripartire da tanta distanza. Lui la negava, la ignorava, il bel labbro inferiore teso come una corda, distratto dagli impegni della giornata. Eppure, non era lui che aveva detto, sul portone, mentre lei tornava indietro a prendere un ombrello: “Quando ritorni?”. Il suo sorriso lento l’aveva fatta quasi svenire. Avrebbe voluto prenderlo per il braccio ed allontanarsi anche soltanto fino a una macchina, ad un incrocio.. Eppure era rimasta lì come bloccata da una manata. Sterzò bruscamente per girare ad un incrocio, e le ruote stridettero. Era arrabbiata a morte. “Ma come è possibile? Non riesco a difendermi, non riesco ad attaccare”.

lunedì 16 maggio 2005

Aggettivo definitore: anestetizzata

Mentre entro in casa mi attanaglia la sensazione di star per cadere a terra. E' una sensazione intensa e non direi totalmente sgradevole. Niente a che vedere con il senso di perdita dell'equilibrio, le vertigini, le cadute di pressione. E' una sensazione razionale, un ossimoro: sono lucida, e il mio corpo mi manda sommessi messaggi di cedimento, roba mai sentita prima: mi vedo cadere completamente sveglia, come se il mio corpo perdesse tutte le sue connessioni fisiche di colpo, e mantenesse intatti il pensiero e l'attenzione. Nessuna paura, è soltanto una coscienza diversa della fisicità. Ascolto e riattacco tutti i pezzi che stanno per cedere. C'è un questo atto istantaneo un amore sterminato, un accoglimento più forte di nessuna passione, e nulla a che vedere con l'egocentrismo. Conosco me stessa. Sono la mia Florence Nightingale.

- E adesso, carina, preparati un caffé e mettici pure un dito di cognac.

venerdì 13 maggio 2005

Doppia cervicale, grazie



Quando giro per Roma alle volte mi sembra di stare dentro al plastico che si trova nel Museo della Civiltà Romana; ma altre volte, meno storiche e più quotidiane, scorgo dentro il primo un altro plastico, come se un gruppo di architetti fossero intervenuti nella notte, al modo della società segreta e benevola che descrisse Borges in un suo racconto, per creare una Roma parallela, figlia del post ventennio ma anche degli anni 60 e 70: case travertino e mattoni, ma sempre con qualche curva da qualche parte, nella cornice del portone o nelle finestre o anche nel giro dei balconi; oppure gigantesche tele rettangolari bianche, bucate da lunghi balconi evidenziati a tinte forti e persiane in contrasto di colori; o anche la fantasia di balconi spezzati, mossi, collocati come fiori di ostia sulla torta di facciate che arretrano. Certo, io non ho l'occhio rigoroso di Mr. Gualtiero per le case. E spesso mentre giro guardando in su come una deficiente vado a cozzare contro qualche ragazzetta con cagnolino mignon (il quale, scusate, sveglia in me degli istinti venatori) o contro signore ugualmente perso in lettura di giornale o, come oggi, anche fighetti distratti che fanno suonare le chiavi del Mercedes uscendo dal baretto dove mi sono rifugiata in cerca di un caffé. Ma le case stanno lì e nessuno le guarda, strepitosamente belle nei suoi colori tenui o pastello o combinazioni di marmi e piastrelle: sono per me manifesti di creatività e anche di delirante follia, le quinte della città.

giovedì 12 maggio 2005

Sono curiosa.

Dico, ma se la settimana prossima facciamo un salto a Firenze (via Come si fa un blog)?? Guardate il programma di sabato e domenica...

mercoledì 11 maggio 2005

Troppe macchine nella piazzola

Sembra ricavata da un basso, Bibli: si sviluppa in scaffali e tavolacci ricoperti di libri e si snoda poi in svolte escheriane - che mi mettono alla prova, io sempre pronta a perdermi - verso altri luoghi dal gusto più prosaico e di maggiore silenziosità. La saletta, un horror vacui di sedie nere da regista ognuna con il suo programmino, ospita insieme uno strumento, una sedia vuota e l'attesa. Giriamo, ci salutiamo, fluide presentazioni. Guardo il pianoforte. Di solito quelli da concerto sono pantere antiche, animali pericolosi che bisogna stregare con le sole mani. Questo è quasi tascabile, un felino metallico con tendini ramati e pelle pezzata d'acciaio; il lucido nero è soltanto una metafora della sua notturnità.

Guardo e guardo, perché null'altro so fare mentre ascolto.... Dove siamo quando sentiamo un pianoforte suonare, con il fiato compresso, che vorremmo interrompere o sospendere, finché tutte le note ci sono entrate dentro? Guardo i miei compagni occasionali, momentanei. E vorrei congelare questi gesti, questi occhi. Ma sicuramente Ray, seduto sulla sedia vuota - così vorrei - gli occhi chiusi, libero là nello spazio dov'è, vede e toglie il superfluo di questo momento, come quando scriveva.

C'è del Botticelli e del Caravaggio nel viso della pianista, in quell'intensità degli occhi sul pentagramma: dapprima le note sfidano, disprezzano, offrono brusche caffé e tovagliolo e chiedono continuamente il conto. Lei si piega, la pelle madreperlata sotto la luce cruda, cerca, lancia i capelli rossi, ascolta. Colpi di spada, come nel Don Giovanni; accordi straziati: non cede. Le note lanciano segnali che le mani della pianista lasciano sciogliersi in aria come profumi istantanei. Poi due note martellate ai lati della tastiera, come farebbero le mani di un bambino curioso: una bassa, una acuta, gemme che si sviluppano in rami e foglie e fiori. Ecco, mi dico, adesso lo circuisce, lo conosce finalmente. E poi, quando prova di volo si estende bianca e nera sul leggio, è ormai sicuro, è lei a dominare; a piegare le note, a portarle come si porta un bambino che impara a camminare. E quando il pezzo finisce, lei arriccia il naso: ha vinto. Un breve valzer, ed il felino dorme.

Mentre la pianista risale dai sotterranei dove si è cambiata, si ferma a leggere il titolo di un libro che l'ha colpita. Sembra una donna elegante che va a fare colazione in un baretto di Prati, non più trasfigurata. Un uomo legge un libro dalle copertine bianche, avvicinandosi molto alle pagine, alzandolo in aria come fosse un Vangelo; il collo piegato e i capelli sale e pepe contrastano come in una foto ritoccata sotto una luce diretta che sta sopra il tavolino. Gli occhiali, negati, si altalenano appesi al mignolo. Parliamo prendendo tempo per tutti: di cultura blog, di musica, di tempo, di città; ci ascoltiamo.

Le note si combinano e scombinano per le strade oggi buie, seicentesche, di Trastevere. Do, re, mi, fa, sol, la, si. E io, sentendo addosso, tiranno, l'avvicinarsi del momento in cui le lancette si uniscono e lanciano verso il mondo il nuovo giorno, me ne vado costeggiando le luci di un cinema che tingono di vari colori le macchine parcheggiate. Avanti, avanti, i semafori sono verdi! Un'accelerata ed il giallo resta dietro tre volte su via Marmorata, un decumano ferito dalle corsie preferenziali; via fino al garage, puzzolente di benzina.

- Gianni... uff.. mangio troppe caramelle (mentre butto gli involti delle gelatine ai frutti di bosco nel cestone dei rifiuti).
- Embè.

Silenzio, ricordo; nostalgia delle note che per adesso restano proprietà della notte.

martedì 10 maggio 2005

Stasera

Penso che lo sappiamo tutti: stasera ci vediamo qui. Se la mia macchina non è stata trasformata in zucca e i suoi cavalli in topolini, proverò a scrivere le mie impressioni, per chi è lontano.

lunedì 9 maggio 2005

Breathe / Stop breathing

Non ci sono tempi morti in città, in un normale giorno di zoo ripetuto. Guido con il naso all’insù, come un idiota, come un Neal Cassady, senza comunque permettere a nessuno di passarmi avanti; un’Argo implacabile che passa con il giallo mentre sbircia un balcone dove una ragazza fine, appoggiata alla ringhiera, incrocia e scioglie le gambe, fumando mentre parla con qualcuno all’interno. E non mi stanco mai di balconi, di finestre aperte al sole; finestre con tende che ondeggiano, con gatti che si affacciano, con il cielo rubato in migliaia di riflessi, chiuse nei loro segreti, affamate di sole.

Un ragazzo mi supera accelerando, con le spalle infossate. Dietro, una ragazza vestita di celeste, le braccia piene di braccialetti colorati, i capelli rossi tenuti da un nastro blu. Lui canta, vedo che canta perché inquadro nel mio sguardo il suo viso mobile nello specchietto rotondo. Il suo corpo giovane è disteso; il vento gli gonfia il bel giubbotto nero. Lei si tiene a lui con braccia delicate. Tra le facciate e il sole corre l’emozione di un bacio lungo e piatto, sempre più dorato. Si fermano al semaforo, lui alza il casco, risponde al cellulare. “No, stasera non posso, non ti arrabbiare. Devo consegnare un lavoro urgente”. Si guardano e ridono, complici. Lui vede che sono accanto e ho sentito tutto; mi fa l’occhietto, mentre riparte e riprende a cantare… Lei mi guarda seria. E io penso: mai mentire davanti ad una donna. E’ subito punta da un ago che scrive sulla pelle: lo farà anche con te… Poi ci sarà il silenzio, la più eloquente delle parole. Ma intanto è destino che i destini si intreccino, che le danze si danzino, che i corpi s’incontrino. Si perdono sul lungotevere, nella luce rosa e arancione del tramonto di primavera a Roma, mentre a me tocca rifermarmi.

E l’uomo senza una gamba che mi viene incontro, con quanti come me si saluta - lui cortigiano, ossequioso, un occhio calcolatore dei soldi che gli sto mettendo nella scodella di plastica, l’altro amaro, disilluso; io pietosa, allegra di ritrovarlo d’inverno come d’estate, la pelle tostata a tutte le intemperie - dopo che ha timbrato a bordo ponte e percorre i suoi 2-3 metri di territorio asfaltato vicino al semaforo? Mi porto dietro quello sguardo acquoso, incolore, che mi segue correndo sulle mura fino all’ex breccia di Porta Pia coperta di verde edera nei suoi bastioni, come una secchiata di pittura acrilica che mi sveglia, che mi scuote; ma anche la voce che cantava, che mentiva, che era felice nella primavera…

Vacanze

Finalmente è finita la neve, nel mio rifugio in montagna. Sotto, c'erano questi colori. Per un po', dolcefarniente...


i colori nascosti 

A più tardi.

venerdì 6 maggio 2005

Dal calendario

Non credere tutto quello che senti, non spendere tutto quello che hai, non dormire tutto quello che vuoi.

E io dico: Guardare al domani come a una meta più alta.

giovedì 5 maggio 2005

Esiste una cultura blog?

Traduco da Loic questo suo post (in inglese qui) (in spagnolo qui, dal blog di Antonio Fumero) sui blog.

"Una giornalista mi domanda oggi se esiste una blog-cultura? Penso di sì, ma mi piacerebbe avere la vostra opinione. Per me, la blog-cultura è definita da:
- il desiderio di condividere le proprie esperienze e conoscenze con altri
- l’importanza crescente di avere l’opinione dei propri lettori sulle proprie idee (tramite i comments); da quando costruiscono una loro piccola comunità, i bloggers sentono spesso il bisogno di chiedere loro un’opinione su tutto
- un aiuto mutuo molto importante tra bloggers. I bloggers sono capaci di condividere insieme dei progetti di collaborazione spesso lunghi o impossibili da condurre bene da soli
- una cultura dell'informazione molto importante, veloce e con numerose fonti (la maggior parte dei bloggers leggono decine di blogs ogni giorno, alcuni, in qualche caso, centinaia)
- il bisogno di incontrasi "veramente": non c’è quasi ormai una sola settimana senza il suo ritrovo di bloggers a Parigi o in provincia, tematico o generalistico.
Avete notato altre caratteristiche che appartengono a una "cultura blog"? Oppure non è che una visione dello spirito?"

E vi lascio pensare sui concetti principali, una specie di Decalogo, che è uscito dai comments:

. il blogger è un cittadino del mondo
. crede nell'universalità della conoscenza
. ha una volontà orientata fortemente a condividere idee ed esperienze
. ha bisogno di conoscere nella realtà gli appartenenti alla comunità che crea intorno a sé: se necessario viaggia
. vuole poter scegliere le sue fonti d'informazione
. condivide con altri blogger codici e linguaggi specifici
. ha bisogno di riconoscimenti e nutrimento: i comments
. è veloce: l'immediato bisogno di commentare un post

E voi?

mercoledì 4 maggio 2005

Consigli per i nottambuli

Un tempo, allora, altrove, io mi aggiravo insonne e intensa, ripiegata e densa, concentrata nel conservare ogni minuto secondo; e leggevo, scrivevo, guardavo allo specchio e fumavo, assaporavo del jerez oloroso, spiavo i gatti di cortili catalani, respiravo profumi istantanei, enormi.

Adesso, qui, io mi aggiro insonne e intensa, ripiegata e densa uguale, le cuffie su Brad Melhdau e velocissime dita sulla tastiera, il filo di fumo di una candela alla peonia messa davanti a delle sontuose peonie vere, un pezzo di torta che odora di burro, la notte che entra dalla finestra aperta.

Viaggio.
Il mio blog-totem, l'uomo che conosce la musica: Daniele.
Una sensibilità per il bianco e nero: Bertrand.
I suoi disegni, da re del sarcasmo (in inglese): Hugh
Tutti insieme appassionatamente: La classe

martedì 3 maggio 2005

Parlarsi addosso

Ripenso spesso a quello che mi dicono gli altri, nelle conversazioni di ogni giorno. Come, con quale tono, cosa dicono gli occhi, se la testa è girata e verso dove, se le mani mimano un gesto o sono in tasca, se ci sono silenzi musicali o di distanziamento. La comunicazione procede per righe di diversi colori, tutte insieme. Ci sono quelle grigie, le banalità, le schizofrenie, lo scontato. Righe nere di disprezzo, che non sopravvanzano. Righe rosse di passione, che raramente emergono. Righe gialle di menzogna e finzione, le più evidenti sempre. Righe verdi come mani che si tendono, verso il cuore. Tutto sul biancore di una parte della sincerità.

Così penso, quando parliamo, mentre tu mi rovesci addosso cascate di parole che non mi lasciano alcun segno nel cuore, e io sento invece vibrare tutte quelle frasi che stanno sotto, sensazioni parallele e confuse che cicatrizzano dentro come righe di pentagramma sulle quali ci sono soltanto segni di silenzio, la più eloquente delle parole. Non le posso fermare, dissossarle nell’aria da quella carne molle del comune parlare che nasconde la verità, e offrirtene le spoglie nude da affrontare. Non riesco più ad ascoltarti; faccio fatica a ritornare in me perché sto memorizzando a doppia velocità le inflessioni di dolore, le pause per sentire se rispondo, l’ansimare nel dire; c’è troppo dire, è un voler riempire lo spazio vuoto tra i due, diventato discarica delle parole. Sento che non c’è il cuore al calor bianco che trasforma le parole in una cosa viva, generatrice. E voglio finire, salutare meccanica e basta; imbastisco un mezzo rimandare ad altro tempo, ma è fuori luogo. Suona, perché lo sento, come un addio spugnoso, ambiguo. E mentre cala il sipario sorrido: che cosa buffa e crudele è la vita, che ci ha dato la parola per formare il sentire, per capirci e confonderci…

lunedì 2 maggio 2005

Tost ou tard l' amour est vainqueur (Atys)

Ma come faccio a essere malinconica, quando un parcheggiatore a via Marsala, gli occhi ardenti e neri, nella bolgia di macchine che circonda sempre le due estremità della galeria gommata, mentre mi indica con due dita un posto libero, in un lampo vede che io continuo senza fermarmi, vede il piccolo riso ironico dei miei occhi, e con le stesse due dita mi manda un bacio?

domenica 1 maggio 2005

Odor di brace

Se ne sono andati verso il fiume, lievemente seccati come aristocratici decaduti, i gabbiani; i colombi sono intontiti già di loro e adesso si trovano scacciati dapertutto e fanno piccoli voli di assestamento all’intero del territorio, sopraffatti. Come migliaia di ragazzette chiassose piombate sulla capitale dalla provincia, uniformate di nero, le rondini spaziano giorno e notte per le strade, commentando le mise delle cittadine stanziali, puntando a questo o quel maschietto, accappigliandosi per un pezzetto di legno, gridando, gridando sempre. L’inverno è finito! L’inverno è andato!

Nella mattina fresca di un umidità da vera rugiada, che richiama dentro il DNA verso i prati e l’aria aperta usciamo verso una qualunque villa capitalina, a caso. Scartata Villa Pamphili presa d’assalto da doppie file e da rondini umane che strillano e si accapigliano per un parcheggio, scivoliamo verso Villa Borghese in mezzo ad un traffico rintronato, primaverile, fatto di atomi in forma di motorini che m'insidiano e si avvicinano nelle mie traiettorie fino a quasi l’urto, producendo lo stesso un’energia compressa e irrazionale che ci sposta tutti e che mi permette in certe curve e chicane cittadine di far finta che sono a Vallelunga, con gran divertimento di passeggeri amici, sballottati nei sedili posteriori. Mangiare veloci, all'ombra degli alberi di Giuda che fanno piovere fiori fucsia che si ostinano sulla frittata e sull'inmancabile, profumato caffé del termos. E poi, sostare tra le margherite, gli occhi chiusi, il libro inutile aperto al sole che tutto domina.

No, non siamo stanchi. Brulica, il parco degli Acquedotti, di persone e braci e bambini, ma io ho occhi soltanto per quelle spighe sparse ovunque in enormi cuscini; non posso resistere senza acarezzarle mentre cammino distratta tra pini caduti e palloni e torsi nudi e la grande, romana gioia della scampagnata. Lontano, l'acquedotto si perde nella foschia; dietro, suona il claxon del trenino dei bambini. Il guidatore protesta con un ciclista altero, come fossero in mezzo all'Appia Nuova. Sul tratto di acquedotto che costeggia la zona di parco più popolata salgono, sostano o camminano gruppi di ragazze, equilibriste della vita. La mia mano sente la pelle leggera del vento tra le spighe. Vorrei, come sempre, fermarmi a toccare tutto, la terra, i papaveri, il mantello dei cani, tutto patinato d'oro nel tramonto. Un treno fischia, dietro gli archi corrosi. Soltanto un lieve chiudere gli occhi, un tempo di emozione che è soltanto mio; e da fuori mi chiamano, mi trascinano...