venerdì 29 aprile 2005

Una carezza lontana



Le pene d’amore vanno schiacciate e distrutte. Quelle che troppo durano, quelle senza risposte, quelle che alla fine sai che è inutile. Il disamore è una bestia potente, nel quotidiano si presenta olografico, inafferrabile alla ragione che tutto vuole ordinare, classificare, ridurre al segno uguale e alla conseguente soluzione. Queste erinni, con le loro teste di medusa, appaiono un giorno in forma di sospetto, agitano i tentacoli: sono i malintesi. Diventano sempre più vicine; guardano con me un cielo che volevo guardare con qualcun altro, mi iniettano dei sogni nei quali non trovo il freno per fermare la macchina della quale non domino il camminare veloce verso qualcosa che mi minaccia ai lati, davanti, dietro, di follia. Così senza pietà, senza ripensamenti, con il dolore di una chirurgia da campo di battaglia, ho amputato dal mio cuore che batte sempre più disumano, capace degli slanci più alti ma anche di fermarsi fino alla freddezza. E siedo intera di nuovo, come tante altre volte ancora che ho amato e amputato, dentro alla notte sorella, scrivendo subito, scrivendo come sotto un verdetto, sentendo come le parole scivolano dalle spalle come le squame della pelle vecchia. E non c’è risurrezione.

mercoledì 27 aprile 2005

Dura tra i duri

Se non ti piace quello che vedi, guarda altrove – penso allo specchio, una mano di sfida sul fianco. Quanta rabbia, ma sono così.

No, non sto bene qui in mezzo a questa porcellana verde acqua, sopra questo pavimento nero, questa finta strada asfaltata rassicurante tra le quattro mura. Profondamente insoddisfatta, desiderosa di non lasciarla, sono tornata dalla vera strada che oggi mi ignora e sputa dentro il garage come se la mia macchina fosse una pecorella uscita innavvertitamente dal gregge. Ecco, lo so, lo afferro: mi è rimasto aperto dentro un cassetto dal quale sono caduti fili spinati, luci fredde, silenzio di cimiteri sotto una luna muta, ignobile; tutto pattume che avevo adeguatamente nascosto. Tornare a casa era impossibile con un tale fardello di vuoto, e di solito il resto bolle. Ho dunque girato senza meta, accecata da lampioni crudeli, avvolta nelle rosse luci dei freni, orfana della mia città di cui sono cittadina profonda. Lasciarsi andare nelle discese, il piede a mezza frizione, pura meccanica dell’abbandono. Attraversare quartieri addormentati, spazi di nero assoluto, superare ponti su fiumi fermi in quell’esatto secondo là sotto, il cuore stanco dal troppo e troppo battere.

La mattina dopo, trapassata di sonno ma inesorabile nel seguire il dovuto quotidiano, passo sotto gli archi delle mura e comincio la curva che immette sopra San Lorenzo mentre il più bello degli ETR entra in quella dei binari di uscita di Termini, verso la direttissima, speculare alla mia. Sopra la tangenziale come al solito, aerei in rotta di atterraggio, la cappa sporca degli scarichi, la minaccia delle finestre sbarrate; ma c'è il sole, oggi è finalmente iniziato il periodo solare fino a ottobre. Guardo davanti e il treno a piccoli intervalli. Stiamo per chiudere insieme un cerchio casuale, un ying e yang, io grigia e lui rosso. Contenuta nella parentesi, guido attenta ai movimenti inconsci delle altre macchine: poi esco al sole, davanti alla discesa che immette nell’autrostrada, e la luce entra dai vetri un po’ abbassati e si mischia con il ritmo tenuto dalle corde basse di una chitarra, che esce dagli altoparlanti. Lontano, il treno si allontana verso la Stazione Tiburtina. E così come quando cade una goccia nell’acqua, rotonda, dopo essere stata sospesa per un attimo lentamente filmato, così nel vederlo allontanarsi la mia notte interiore si scioglie ed unisce al giorno; le mani del chitarrista battono sulla cassa, il ritmo accelera, accelero anch’io, si uniscono anche a me gli altri strumenti e vite in movimento. Lasciamo una scia e siamo una foto istantanea. Il cerchio gira e lo ammetto, finalmente.

Spinta del sole che riscalda, carezzata. Bastava spegnere dentro ed accendere i sensi, lo sguardo fuori ed altrove. Azzittire quell’interno che ci ricorda la mortalità è importante quanto respirare: è per respirare meglio. Tutto ciò può durare un secondo o per sempre, anche.

Hai visto. Non era meglio prenderla a ridere? – rido allo specchietto, rido, rido, e sfreccio a 110 sul raccordo.

lunedì 25 aprile 2005

Les Blogs a Parigi

Direi che il migliore, preciso ed essenziale, nel commentare e indirizzare verso dov'è l'informazione giusta sull'evento, al quale avrei tanto voluto assistere, è questo post di Pandemia. Spero che prima o poi qualcosa del genere si faccia in Italia, non direi a Roma o a Milano, ma comunque qui. Chi ha tempo scorra le foto su Flickr, io resto a studiare un poco i post relativi.

Ultramarine?

Tutto qui.

Fuori dai sogni

Oggi non valgo nulla. Stanotte mi sono svegliata dopo aver girato nel letto per due ore, insonne. Rimuginavo vecchie rabbie, tessevo vendette e fatti definitivi e rotondi come punti a capo, scrivevo concetti e frasi perfette nel quaderno del non esprimibile. Nulla di peggio di questi tempi morti in cui non so alzarmi a fare un bel caffè caldo, perché il corpo rimane ancorato mentre la mente vola a 16 valvole nella notte dei miei pensieri, fermandosi in territori non toccati dalla poesia o dall’emozione della bellezza. Discariche intere di sentimenti repressi si riversano in pensieri menomati che conquistano l’attenzione, che spargono la loro melma fino al cuore e lo avvelenano senza costrutto e senza azione, senza vere conseguenze, senza altra realtà che continui la vita. Sfinita dall’attacco, ritorta dentro, mi sono addormentata e poi risvegliata verso le 4,30 dalla sensazione che ci fosse accesa una luce nel corridoio. Poi ho capito che avevo questa luce dentro agli occhi, arcoiris e caleidoscopi di colori, davanti allo sguardo come una cataratta: la luce del sogno. Ero lucida, parlavo e sapevo insieme che non ero ancora totalmente tornata, vedevo la luce del sogno che non si spegneva galleggiare in una sospensione di formalina dell’inconscio; la mente era sveglia e invece il corpo là, ancora non atterrato, gli occhi altrove sicuramente. E non potevo tornare lì, là dentro, nel sogno che volevo riportare, scrivere per ricordarlo, che adesso non ricordo più.

Per tutto il giorno ho vagato con negli occhi l'assenza di questa luce. Non saprei definire se era un'assenza fisica o l'irritazione dei primi giorni di allergia; realisticamente propendo per quest'ultima. Ma vorrei tanto, alle volte, poter attraversare i due mondi con facilità, conoscendo le chiavi...

sabato 23 aprile 2005

Beautiful losers


cavalcavia sotto la pioggia


Decidere. Ci sono dei momenti in cui la vita è più grande di questo tempo meschino, limitato a singole unità misurabili. Una salita ci porta verso dei cavalcavia brevi, ma elevati, che si aprono davanti a un futuro possibile. Decidere includendo le vite degli altri, includendosi nelle vite degli altri, è come cominciare un quadro, abbozzare un gesto sulla tastiera; un atto creativo.

C’è anche una grandezza, nel prendere delle decisioni da soli sentendone tutto il peso, sentendo quanto vorremmo che qualcuno ce le levi di torno, ci risolva il problema, ci dia la soluzione in un vassoio, e soprattutto ci lasci soli con la nostra debolezza, ad autocommiserarci in pace.

E quando quel momento è passato e quel che abbiamo deciso mette in marcia il treno, il treno va assimilando ogni cosa, bene e male, e ci riempie di qualcosa che non è definibile ma che è indubbiamente luce e pienezza di sé. Allora sento in me stessa la serenità senza dubbio di chi ha fatto bene nella propria solitudine, di chi fa bene anche quando fa male, perché FA, esegue un’azione che mette in movimento l’eternità che un secondo prima si era come fermata ad aspettare, e che è anche in qualche modo psicologicamente pronta alla battaglia con le conseguenze che non ha previsto o per le quali non ha risposta. Mi viene agli occhi l'emozione perché vivere, averne coscienza, è una sensazione che viene dal decidere di dare, di fare, ed è insostenibile nella sua bellezza, è un dono infinito.

In questo momento, quando il rumore della pioggia che scroscia entra nella macchina e va a poggiare il suono di una goccia sulla pagina del taccuino giallo in cui sto scrivendo, sento che per vivere ci vuole la passione, lo slancio, la cecità, il buttarsi a mare. Sfumare le parole, dissolverle. Azione.

giovedì 21 aprile 2005

Don't worry

No, non sono sparita, piuttosto trascinata da questo sbocciare primaverile e da antri 'mpicci.
Torno subito..

lunedì 18 aprile 2005

Net to be_riflessione sul segno

Le parole, i segni degli sms hanno indubbiamente densità e importanza, per chi li usa. Non ci si può dilungare a spiegare la profondità di un concetto come nelle lettere... e alle volte quel concetto, scarnito, diventa malinteso... quante volte ci è rimasto il dubbio di quello che leggevamo, o che avevamo scritto? Altre divagazioni qui, da: R:ob Grassilli

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domenica 17 aprile 2005

Roma:amoR

E' tardi. E' tardi. E' l'ora in cui la città si prepara a una disumanità calcolata che si sgrana per ore fino all'alba. Ho girato per Corso Francia seguita dalle lunghe linee dei più lunghi balconi della città, superati soltanto da quelli sui lungoteveri, affacciati sull'asfalto come sopra un burrone; sola, procedo adesso lentamente su ponte Flaminio - tutto bianco con quelle sue enormi luci che ricordano le omologhe dell'800, lampade a gas che non illuminavano più di queste - per poi accelerare su di una spettrale tangenziale fino alle luci gialle che segnalano l'uscita obbligatoria, e poi giù per strade schiaffeggiate ed annerite insieme da lampioni gialli e angoli profondamente scuri. Mi lascio portare dall'istinto per le stradine fino alla Nomentana, istantaneamente mi accorgo di aver sbagliato direzione, inverto ad un semaforo, con traiettoria larga, sotto lo sguardo di una volante e filo per lo stradone dritta fino al ramo del Muro Torto che ci inghiotte, me ed altri ritardatari, e poi ci spara fuori a Castro Pretorio come in un vago tiro al piattello. Mi fermo un secondo davanti alle luci di Termini, una cascata alogena sul travertino: via Marsala, quella strada ambigua che ospita insieme l'esercito e gli ultimi relitti del disordine del mondo - tutti sdraiati adesso, incopertati, accostati al calore dell'ufficio delle Poste come tanti bachi da seta - mi abbraccia come un onda, mi invita a scendere e tuffarmi nel tunnel che da sotto i binari sbuca nelle propaggini dell'Esquilino, come tante altre volte.

E' tardi. Che silenzio qua sotto. Fermo la macchina e accendo le frecce. Una foto, mi dico, di queste linee razionalmente sprecate nel rumore, nei gas di scarico. Una reliquia di catacombe asfaltate. Scatto. Un rumore improvviso e due ragazzi che escono da dietro i pilastri, gli occhi basssi, ogni tanto un guardarsi indietro, non a me. E quando vanno via mi accorgo che mi hanno lasciato l'immortale e immortalata parola che delimita e conduce la vita fino a compimento...



L'amor nascosto

venerdì 15 aprile 2005

Paseggiata


L'oro alla Fontana delle Tartarughe.

Perchè sì, perché c'è odore di primavera; ma anche per uscire a fare un giro, per vedere prima l'oro del tramonto, vado a sentire Andràs Schiff che suona un po' di Beethoven, di nuovo.

mercoledì 13 aprile 2005

Comunicazione di servizio_4

Soprattutto chi riceve da satellite, ma chissà?... anche chi ha soltanto un 21 pollici senza decoder come me, ha la possibilità di sentire alcune novità (spero; non lo so) e opinioni sul mondo dei blog, domani sera; oppure aggiornarsi leggendo in altri luoghi. Inoltre chi, come me, ama le statistiche ed i sondaggi seri, può nello stesso post trovare il link ad un breve questionario dello IULM di Milano. Il tutto via IL manuale.

E prima di andare a dormire, vedete se qualcuna di queste foto vi strappa un sorriso...

martedì 12 aprile 2005

All’inferno Gadda e la mistica della sfiga

La cognizione del dolore nulla è. Il dolore è sterile, muto; stacca le vene dai fasci muscolari dove sono appoggiate, tende i tendini di tutto il muscolo cuore, rende cianotico il respiro della vitalità intera. E io qui me lo sento, a testa china, conquistarmi dal basso, dai piedi le cui dita si ritorcono come in un gesto antico di ricerca del ramo su cui poggiare, una materia che rassicuri, tangibile. Risale la schiena: è un contatto non voluto, di unghie antiche e uguali negli evi e nel futuro. Ne ho coscienza quando arriva al cuore e con un solo balzo raggiunge i miei occhi; subdolo, perché gli occhi sono le mie finestre sempre aperte alla vita, che il dolore copre con una nebbia feroce, con tende gelatinose, brucianti, che hanno il profumo insostenibile di tutte le lacrime che ho pianto. Mi ribello, mi ribello, ho la nausea; perché so, ho la cognizione, la coscienza fisica del dolore psichico. E non c’è spazio dove rifugiarsi o autoaccogliersi, né voce amica, o specchio, nulla; la mia strada adesso è questo bosco da percorrere senza sapere quando né se uscirò. Mi ci devo abbandonare. Ribelle impreco contro i sacrificati che considerano il dolore una espiazione. No, è l’inferno, la cecità; annullamento, ignoranza, attesa insostenibile. So, ripeto, sì, che mi devo abbandonare. Mi libro, apro le braccia, plano lentamente dentro il dolore che mi accoglie. Affogo,
mi sciolgo - dormo

lunedì 11 aprile 2005

Green is the colour

Sono troppo seria, lo so. Noiosa, forse. Ho lasciato dietro ma rimugino stracci di una conversazione intensa mentre filo a 110 sull'autostrada, ricevendo addosso zampate d'acqua dalle nuvole, che si divertono a sbattermi come fossi un topolino e loro dei giganteschi gatti tigrati di grigio. Dopo la frenesia del tratto cittadino, oltre il raccordo e i viadotti, il paesaggio è una cascata orizzontale che scivola sui finestrini in un misto di colori strascinati, che non si lasciano definire fino al casello. Stop-and-go con il biglietto schiacciato dietro il parasole. Un nastro di asfalto - la mia pista di decollo -, le curve paraboliche, il verde dei campi seminati. Entro nelle gallerie bordate di olivi e di edera. Esco sopra i campetti, ognuno con il suo alberello fiorito di bianco o di rosa. Le foglie delle robinie, di un verde delicato, esplodono ai margini dell'autostrada; mi rendo conto piano piano di entrare nell'alveo di un fiume mobile, che vibra e scorre. Sulla Sublacense conosco ogni curva, ogni albero mi è fratello, e vorrei abbattere ogni edera che li soffoca rendendoli giganti obesi, ammassi tremolanti di foglie sui nudi rami; e comunque degni e imponenti, mai domi. Dietro la centrale elettrica, dagli argini ricchi d'acqua, le tonalità sono irripetibili e ringrazio nonsochi, nonsocosa, per poter vedere così tanti colori di uno solo.

Salire la montagna è come un pellegrinaggio: si procede in silenzio. Spengo la radio, apro un finestrino anche se l'aria è gelida. Sopra Subiaco un immenso nuvolone ha dimenticato la strada del ritorno al cielo. I suoi bordi si arrampicano sui fianchi della montagna come tentacoli piumati che toccano studiando; tentennano impigliandosi nelle dita dei faggi, ora piene di gemme, pronte a fogliare. E mi raggiungono mentre scendo: entrano nella macchina come un bacio umido pieno degli odori raccolti. Ah, la nebbia... non sapere cosa c'è dietro quella roccia, oltre quel tornante, e saperlo. Niente più verde, qui. Solo il mistero di colori mai colti né riprodotti, inviolati; e io dentro, accolta, attraversata.

La città nel primo pomeriggio è sdegnosa: alla fine non sono che una tra le migliaia di macchine che girano. Nuvoloni grigi e neri se le danno in un wrestling senza tuoni. L'ultima curva prima del raccordo è la guancia nella quale gira una gran caramella verde di pini, di muschi che brillano come smeraldi quando la neve si scioglie, di confuse sterpaglie e verdi parallele fisse nei solchi dei seminativi. La città non se ne accorge. Mi porto dietro, ridente, la primavera...

domenica 10 aprile 2005

Milano, 19 agosto 1983

Il piacere di suonare, in una immagine di Damiano

E la notte scese, come scendono in questa città tutte le notti di questa estate: piano piano, e odorava di magnolia e di cortile grigio e ocra. Vedevo accendersi le luci dentro le finestre; nei pianterreni la gente rimaneva ferma dentro la nebulosa formata dalla slavata luce delle televisioni. Fuori c’erano già le zanzare, gli ultimi canti delle rondini, la promessa dell’aria che si andava rinnovando sottile, lentamente, fino all’arrivo dell’alba e della rugiada. In questo scenario inconsistente, come mediato da un velo, cominciò a sentirsi un pianoforte; prima sfumato tra gli strilli e le risate isteriche di un film violento, poi luminoso, trasparente, scintillante come uno Czerny da usare per sgranchire le dita. Dentro la stanza della pensione, in cui noi donne leonesse, dimenticando per un po’ gli odori della savana – perché la città è savana di cemento assolato– finivamo la cena, io, ancora distratta dalla lentezza della bambina che mangiava secondo me troppo piano o anche dal particolare sapore del mio tabacco preferito, non sentivo ancora arrivare le note, gli accordi, le scale. Saltellavano come insetti inquieti, insetti baccanti; ma i miei sensi restavano oziosi, addormentati, finché il suono non fu di colpo definito, ancora strapazzato dal volume dei televisori.

Entrava nella stanza come un bambino che ha fatto una marachella della quale non rideranno i genitori, anche se è divertente; entrava con quel sorriso negli occhi, senza chiedere permesso, e s’istallava trionfante nelle mie orecchie, a poco a poco. Di colpo frustata, mi svegliai ad altre notti ed altre mani ed altri pianoforti, e mi prese una botta di passione; e mi dovetti affacciare alla finestra, fare sshh diverse volte, zittire tutti nella stanza, spostare la macchina del gas per potermi muovere a mio agio davanti al davanzale, per accendermi una sigaretta ed ascoltare con affamata delizia le belle novità. Poco dopo giunse vicino a me la bambina, curiosa di tutto; facemmo dei bravo timidi ed applaudimmo, e dalla finestra di fronte qualcuno venne ad affacciarsi pur rimanendo un po' nella penombra: era un uomo di età indefinita ma comunque abbastanza matura – capelli grigi, e quel peso che gli anni adagiano sui corpi –, che fece una piccola passeggiata fino a sparire nella stanza, si riaffacciò ancora parzialmente, come dubitando che applaudissimo sul serio, credendo i nostri applausi un miraggio, uno scherzo; e finalmente tornò alla sua sedia e seguitò a suonare, e io mi sentivo dentro la gioia e provavo a riconoscere i pezzi e a canticchiarli con la mia voce rovinata da fumatrice, a bassa voce – perché mi è impossibile competere con un pianoforte – e continuammo ad applaudire e lui ad affacciarsi, e alla fine suonò Per Elisa di Beethoven. Il cortile rimase muto. Sentivo un respiro corale che seguiva le note, salire e scendere e scivolare in un applauso più grande, ma discreto, milanesemente torrenziale.

L’uomo suonò ancora qualche altra cosa, dei puntini di sospensione sulle note basse, e poi ci fu totale silenzio, un vuoto di silenzio che riempiva il cortile. La mia compagna di stanza uscì e la bambina s’infilò nel letto. Tirai fuori i miei libri di Storia dell’Arte. Cominciarono ad arrivare i piccoli insetti di tutte le notti, attirati dalla lampadina della mia luce di studio; e una libellula giovane, interamente verde erba e antenne fini, mobili come una bacchetta nella mano di un buon direttore d’orchestra, venne a posarsi sull’articolazione dell’anulare della mia mano destra. Rimase ferma lì ad ascoltare il lieve raschiare della mia stilografica sulla carta mentre scrivevo questa storia, rimase lì e mi guardava con i suoi occhi sorridenti che brillavano come minute palline di ossidiana, e dopo risalì fino all’indice, come per leggere, come se sapesse che stavo scrivendo su di lei, e osservò tutto; poi arrivarono altri insetti e decisi di mettermi a studiare, circondata da balzetti verdi e con la mia libellula bambina sul dito. E la notte rimaneva sospesa sui numeri del calendario, nera e silenziosa come il silenzio del pianoforte, nera e silenziosa come tutti i silenzi, profonda come un Notturno ben suonato.

sabato 9 aprile 2005

Cardiochirurgia

Inquadrato dai divaricatori toracichi
cuore,
non chiedere, non fiatare:
taci.
Chi dovrebbe,
non ascolta tutto quel tremolare
d'amore,
concentrato com'è nel sé.
Mantengo i miei indicatori
vitali
all'interno del tratto, infinito,
tra l'incassare e lo spegnersi.
Di lui una trasfusione
vorrei,
non l'abbandono di un re
che taglia, cauterizza,
ricuce. Per poi andare a casa e dormire
senza
sognarmi.

Cuore stupido,
batti.

venerdì 8 aprile 2005

The rest of the daily life


La tangenziale


La città ci è sottratta, è diventata come un immenso corpo nel quale un solo punto è evidente: questo punto è di cipresso, e la sua fissità ed abbandono paralizzano anche per un po' il mio cuore che non sopporta i funerali né gli addii. Cammino per le strade tentando di sentire almeno il senso collettivo di tanta solitudine, di farlo risuonare dentro e renderlo esprimibile a parole. Perchè è qualcosa di diverso dalla domenica ecologica, dall'allegro Ferragosto. Viviamo un giorno in punta di piedi. Al supermercato le cassiere incassano irritate, più del solito irritate chiedono gli spicci come mendicanti, guardano tutti noi come se avessimo sottratto loro un giorno di vacanza, un giorno comunque diverso per sempre da tutti i giorni diversi e speciali della vita. A lato del ponte ferroviario, mentre passano i treni come tutti i giorni, marcando un ritmo goduto e dimenticato soltanto dalle case vicine ai binari, c'è un campo di calcetto appoggiato, incastrato nel piccolo colle che dalla Tuscolana sale verso Piazza Ragusa, e lì un po' di ragazzi dalle maglie colorate, lontani dal senso di Caput mundi che riempie la città, giocano composti e silenziosi, non gli strilli e le risa solite, o sostano sulle panchine pensierosi, in attesa che passi il tempo necessario. Biciclette, autobus i cui autisti sono compressi nella gioia di un guidare non costretto dagli ingorghi; persone che passeggiano come se fossero colpevoli di fuga dalle case e le televisioni. Ai margini della tangenziale continua la silenziosa costruzione di un edificio. I lavoratori camminano piano sui ponteggi, a testa bassa. Le moto imboccano la salita come se fosse stato appena tagliato il nastro dell'inaugurazione. Le finestre chiuse che hanno il guard rail come unico orizzonte possibile sono più scure che mai.

Sospeso tutto. Siamo in ascolto come di una cannonata speciale dal Gianicolo, alle 18 in punto, che ci permetta di tornare a prendere l'autobus o a comprare il pane. Il cielo è diventato quasi bianco. Vorrei che cominciasse lentamente a cadere la neve...

mercoledì 6 aprile 2005

Assediati

Non riesco a scrivere nemmeno una briciola di metaforico, di mirabolante, di umoristico, di semplicemente inventato. Incombe l'assedio delle folle, fino al bordo dei letti e dei lavandini. Mi sento con amici assiepati nelle file che vanno fino alla Basilica, o asserragliati negli uffici, o succubi di una metropolitana che scoppia (ma com'è possibile?) più del solito. La conversazione di base parte dall'essere esterrefatti osservatori delle fiumane per poi sfociare, ma stanca, nei risultati delle elezioni. Sembra come se stessero per entrare in città i lanzichenecchi, di nuovo. Chi non vive nell'occhio del ciclone cittadino sente e condivide comunque il propagarsi della sindrome del rifugio antiatomico.

Non importa non stare lì, tra la gente. Anche noi che giriamo attoniti e quasi preoccupati di trovarci davanti sbarramenti e check-point faremo la storia, in questi giorni. La storia ai margini della Storia.

lunedì 4 aprile 2005

Notifica

VIA DELLA CONCILIAZIONE
CHIUSA
Scritta su cartelloni di informazione stradale

E' una scritta un po' inquietante, al di là del suo innocuo significato normale.
Speriamo bene.
Questo blog riposa finché non sarà finito l'ambaradam, che sconvolgerà romani e stranieri per qualche giorno.

sabato 2 aprile 2005

Le lacrime sono l’acqua della passione

Il faro, immagine di Diavoletto


Strana sensazione, l’emergere dal sonno, oggi. Sono tutta storta. La percezione comincia alle caviglie, ai polsi, cinti da un nastro rosso di flebile dolore. Le spalle si alzano spinte da milioni di impulsi nervosi. Le lenzuola mi buttano fuori, fuori. Il telefono è muto, nessun messaggio. Vado verso la macchinetta del caffé, sentendo il legno sotto i piedi che vorrebbero stiracchiarsi, che trascinano un incubo da piedini cinesi costretti, che avrebbero voluto essere ali.. Scopa, straccio, mocio, l’odore dell’antipolvere. Sembra un comune sabato, il solito tentativo di rimettere ordine nel caso. A poco a poco le tessere del mio corpo si ricompongono. C’è solo un silenzio che non è ancora colmato, e che sta lì, interrogatorio, estraneo.

Suonano alla porta, lievi manine di bimbo. Mi fisso i capelli, di corsa, con una molletta, e vado giù per le scale a spirale che mi ricordano il gioco, che scendo sempre di corsa. Fuori, nel piccolo spiazzo davanti, c’è una piccola moltitudine di donne e bambine di diverse età, che mi guarda. Davanti una bambina con un sonaglino anni 50, rosa e celeste, che appoggia a terra. Curioso, penso, si somigliano tutte, mi sembra di conoscerle… Sfilano davanti a me e poi vanno a scomparire dietro la mole solitaria del faro. Ognuna mi lascia qualcosa. Un pugno di grano, cavallette, un riproduttore di cassette, un boa di piume rosa, sandali e conchiglie, un coltello multiuso, una bottiglia di Je reviens, i quattro volumi dell’Argan, inchiostro tipografico e macchie di nicotina, un mazzo di carte, alcune cartoline dalla scrittura nervosa.

Riconosco tutto. E’ tutto mio. E’ carne e sangue. L’ultima di loro, quasi una sorella gemella, mi porge uno specchio nel quale mi vedo piangere. Dice: Le lacrime sono l’acqua della passione. Ma io lo butto a mare. Lei scoppia a ridere, ride, ride, e mi da una spada e uno scudo. Sia gioia nelle tue lacrime. Poi parte.

Sono buffa, penso, con tutte queste cose in mano, spade e scope, scudi e stracci. Con ai piedi i miei anni. Con i nastri che stringono i polsi e le caviglie. Allora squilla il telefono. “Amore mio, dov’eri?…

venerdì 1 aprile 2005

Immaginare i treni

Ho passato parte del pomeriggio a cercare orari e tariffe per muovermi prossimamente sui binari del CentroNord. Allontanatami un attimo per controllare lo stato di cottura del pollo coi peperoni, ho trovato al ritorno il salvaschermo dei treni in piena azione (per istallare la versione freeware, chi non sa il tedesco clicchi sulla bandierina inglese in alto a destra). E mi è venuta ancora più grande la voglia di viaggio.

Nell'eterna notte dello schermo i treni colorati passano, passano, spariscono dritti dentro ai miei sogni...