sabato 26 febbraio 2005

Pazienza

Che giornata di pioggia, di gelo, di corsa ovunque, strade vuote e facciate lavate, bellissime tutte nella solitudine delle ore dopo pranzo. Ma che partita triste.
Mi consolo. Freddamente.


La mousse al cioccolato Posted by Hello

venerdì 25 febbraio 2005

Taccuino giallo

Onde, righe, seguo il cammino delle gocce che scendono oblique
Sto sicuramente insozzando il vetro dall’interno
Le gocce scivolano portandosi dietro il colore delle facciate
Mi si gela la punta delle dita
La luce si disfa in cerchi e cordicelle bianche, sulle pozzanghere
In stracci bianchi, sull’asfalto
Nella pancia mi gira un gran turbine di parole rosse
Ho la bocca tappata dal nastro cangiante del tramonto
Respiro le mie parole che bruciano in gola come giganteschi batteri
Il cielo è come una parete verticale di nuvole incollate
I muratori schiaffano pittura sui lati del portone
Qualche quadro ed una pianta che lentamente si plastifica
L’ascensore odora di sapone in scaglie
Un telefono squilla a vuoto, un rumore veramente meccanico
Arrivo in tempo per dirti che ti [un tipo da una moto prende il taccuino dal sedile e scappa]

giovedì 24 febbraio 2005

Net to be_trippa

Lui li disegna, ma non scherziamo: sono veri scocciatori. Altre riflessioni qui, da: R:ob Grassilli

netobe494_05.gif

mercoledì 23 febbraio 2005

Comunicazione di servizio_3

Alle volte, una normale giornata diventa un quadrilatero con lati di 6 ore ciascuno, assolutamente non elastici.

Devo chinare il capo, oggi, anche se non stanca e non paga di tutto il vento scatenato e le nuvole e le raffiche di pioggia sull'autostrada fino alla quasi cecità (e non volevo andare proprio addosso al Boxster argento davanti a me); ma raffreddata abbastanza da non poter sentire chiaramente uno solo dei miei sentimenti.

- Dimmi come stai, dai.
- [..]
- Arrabbiata con me?
- Non mi pressare. Non mi fai respirare. Hai presente la sabbia delle clessidre?
- Sta lì.
- Ecco, mi sento come il primo granello che cade.

lunedì 21 febbraio 2005

Richiamo

Omar, il guardiano del garage, e Gabriele il mecccanico scambiano impressioni, uno dentro e uno fuori da una Smart gialla. Fluorescenti crudeli li ritagliano contro un muro di macchine.
- Si accende qualcosa?
- No, sono spenti gli stop, tutti e due.

Il portachiavi è un cuore rosso, di cuoio. Premere un bottone, e le porte si aprono con il rumore di una messa sull’attenti. Mi diverte percorrere senza fretta l’Esquilino - non c’è traffico a quest’ora sugli stradoni - pattinando morbida nelle curve insieme ai tram e fiondandomi nel piazzalone di Termini dove oggi regna il silenzio degli storni, non è ancora ora di disegnare nel cielo le macchie di Mirò: no, non ancora. Il pomeriggio è scuro molto prima che accendano i lampioni, ogni tanto ripiove prima lieve, poi da correre, poi come in Colazione da Tiffany; davanti e dietro a me vedo in un turbinare ombrelli, passeggini coperti da bolla protettrice, pulitori al semaforo, ragazze che si coprono con minuscole borse. Una discesa con sotto tutte pietre, via Marsala; un curvone a 90, il tunnel dove non si vede nulla ma si guardano gli anfratti e le profondità segrete di cui è piena Termini, e risalire per le strade lucidate, limitate dai pittogrammi rossi illuminati dalle lampade di carta. Sono i vicoli della Chinatown nostrana, arrivano spalancati fino a Piazza Vittorio, fin nei suoi banchetti di calzature e borse, i pavimenti variegati, ondeggianti dagli anni passati lì sopra, sotto i portici.

Guardo al di sopra degli occhiali, e vedo tutto sfuocato, un privilegio dei miopi: i puntini colorati delle luci sono come fiocchi. Rossi, verdi, gialli, viola, arancio, bianchi. La pioggia tramuta tutti i colori, ma loro resistono: vanno come schegge sulle linee del tram e lì sopra scivolano fino ai binari, incontro alle pozzanghere, diventando metafora cittadina dell’arcobaleno che non c’è.

L’ombra delle gocce di pioggia scivola sul volante mentre ritorno a casa. E’ un richiamo del cielo, una cifratura leopardata. Chiudo gli occhi un secondo. Le ultime note di una canzone che mi piace, della quale conosco ogni strato sonoro. Mi ci vorrebbe una strada senza luci, per andare lontano, fino a sentirmi
accolta
dal mare
della
notte.

Dove sono, chi sono, mi sentite Terra?

La mia penna mi ha abbandonato alle 7.51 a.m. Ferma al semaforo, sotto un cielo grigio, ho scritto appena tre frasi sgorbiate sul mio taccuino giallo, ed è finito l’inchiostro. Un millisecondo prima del verde ho ingarbugliato tutto: non trovavo la leva delle marce, la mano sinistra si è smaterializzata sul volante, la destra costringeva gli occhi a guardare in basso, nell’incomprensibile nulla lasciato dalla penna; le vertebre si sono schiacciate e non ho visto più fuori, ma soltanto il bordo superiore della plancia. Poi, ha preso a piovere, da destra e da sinistra è arrivato un fiume di macchine e sono spuntati, compassati e coperti dalle loro giacche antitutto, i pizzardoni. Ricompostami, non ho visto più metafore da riportare nero su bianco, aggettivi, visioni in motion della città, punti che sono pause di respiro sospeso, corsivi come alte aperte finestre: la lamiera imperante mi ha inghiottito in un tripudio di polveri sottili schiacciate a terra e vinte, anche solo per questa volta. Nell’immenso toboga di piombo, ignara del vento turbolento che sferzava alberi e lampioni, pensando al blocchetto frettolosamente buttato dentro la borsa, sono stata spinta fino alla timbratrice.

Ah, penna traditora, ambiziosa. Ho capito, tu vuoi firmare assegni o ricevute, avere una presenza forte in calce ai contratti, liberare i postini ed i corrieri dai loro ingombranti fardelli: uno svolazzo che è un interruttore, significa denaro, un oggetto, l’essere imprescindibili. Gli abbozzi grossolani dell’idea sono roba da quale tipo di sanguigna? Ti sostituirò con una più fida matita 2B, fedele fino all’ultima briciola di grafite, e che permette anche lo sfumato ed il dubbio. Aspetta, nel livore, condannata alla mia agenda: compleanni, scadenze, liste della spesa!

sabato 19 febbraio 2005

Di questa ed altre rose


 Posted by Hello

- Quel pezzo, è buono al forno?
- Certo. Ne vuoi metà?
- Non mi tentare...


Io sono carnivora. Ogni quindiciventi giorni parto all’alba da casa e dopo aver accarezzato con la fiancata del mio squalo i vecchi territori di Viale Manzoni (ci ho abitato per sette anni) mi fiondo per le curve del Muro Torto fino ad una parte di Prati addormentata, dove le case lucidate a colori pastello riflettono dai vetri delle finestre il Cupolone. Sono stradoni vuoti: via Oslavia, dove abitava Giacomo Balla; Viale Angelico, che finisce al di là di una luce feroce; uno sguardo fugace a Montemario irsuto di antenne e via per le stradine fino al Mercato Vittoria.

Arrivo così presto che trovo tutti intenti alle faccende, mi imbarazzo: è come fossero in bagno, presi a lavarsi dal sonno ribelle. E’ un tempo sospeso di pulizie e spostamento di casse nei carrelli: rumore di acqua nei secchi, frasi leggere che volano dalle lingue biforcute; costruire, appoggiare in torre le patate e i mandarini, allineare le buste di minestrone appena preparato. La macchinetta del minuscolo bar produce caffè ad ogni secondo più denso e profumato. Tutti vanno e vengono e si salutano, tenendo in una mano cartoccetti di cornetto e bicchieretti coperti con il tovagliolino e nell’altra i coltelli per pulire i carciofi: son ballerini rudi. Dopo cinque secondi di banchetto degli occhi ho tanta fame che mi mangio persino il cornettocerbiatto insieme al cappuccino con due dita di schiuma – di quelli che ti fanno i baffi e bisogna toglierli per convenienza sociale a-capo-chino, altrimenti saremo tutti felici selvaggi che si leccano il labbro superiore - , prendo le gomme e due boeri dalla carta rossa, che sono come le ciliegie: uno tira l’altro.

E’ sempre come in teatro. I tempi rispettati: la porta che dà agli uffici che viene da me chiusa causa spiffero tagliagola; arrivano i venditori bengalesi, che cantano la loro canzone di aglio come un mantra; apre la serranda del pescivendolo; serpeggia odor di pane. Gironzolo davanti al banco della carne guardando in termini di pezzo-intero-allo-spiedo e non di ordinati straccetti e severe fettine panate, ma tant’è. I tagli sono trattati a chirurgia plastica dai coltelli, senza alcuno sforzo. La bilancia soffre e pesa e si vede togliere strisce di tara: esco con le mie buste al mattino pieno, via per i lungoteveri.

Accecante sole, corridori, pigri benzinai che guardano il cielo, l’uomo senza una gamba che sta al semaforo di Ponte Risorgimento inverno e estate; accanto a me, sulla destra, si fermano due in moto. Lei, che guida, si gira e bacia lui fino a che scatta il verde. Vado, ripercorro l’aorta della città fino al tunnel che ingoia e poi proietta nel sole, a Castro Pretorio...

venerdì 18 febbraio 2005

Una citazione

Presa dal mio calendario dei gesuiti: "Gli anni che una donna sottrae dalla propria età, non si perdono; vanno aggiunti a quelli delle altre".
Diane de Poitiers, libera traduzione.

Che cattiveria!!!

giovedì 17 febbraio 2005

Lettera richiestami da un amico

No, non mi circuire così. Quando mi prendi alle spalle, le mani lievi, temo di disfarmi. Là dove non ti aspetto ti trovo: là dove non ti cerco mi aspetti. L’aria si apparta rispettosa, al tuo sguardo. Una misura nuova di azioni mi è insegnata: le attese, ed i silenzi prolungati, dormire e risvegliarmi pensando: E oggi? Le strade sono vuote, è così tardi. Io so che tu dormi abbracciata, tra le tante altre cose, ad una radiografia del mio mistero. Questo silenzio, in cucina, lo schermo che mi rimanda l’effetto dei miei pensieri mentre li formulo, è un sipario: là dietro, un mezzo al guazzabuglio dei nostri giorni, si cela una promessa. E no, non sei lontana adesso: tenui fili ti sostengono su di un mio ramo, ogni tanto un movimento, e l’attesa dell’alba; luogo dove ti penso, così intensamente da non poter far altro eccetto uscire famelico, in cerca di quotidianità non mie, belle parole e carezze casuali, dovute agli ascensori o agli androni. Ma questo mi esaurisce, mi svuota lentamente.

Volevo solo dirtelo. Non so scrivere parole d’amore che non siano tenute sulle punte delle dita fuori dal finestrino: le affido al vento, alla pioggia, le perdo e nulla so. Potrei osare di più, ma lo stridere non fa parte di me: vedere i tuoi occhi tra il sarcastico e l’arrabbiato potrebbe ridurmi a lobotomizzato, velocissimamente, fino al licenziamento di tutto il mio carattere.

Ho fatto le valigie, come tu mi hai richiesto. Una è vuota, va riempita di te; a te l’affido.

mercoledì 16 febbraio 2005

Paura delle cisterne

Oggi una cisterna tutta bianca mi ha stretto, sull’autostrada. Oltre la comprensibile paura, forse esagerata, mi è ritornato in mente quando guidavo d’estate con la mia vecchia Panda 750, su e giù dal campeggio in montagna… mentre salivo o scendevo per tornare al lavoro me le trovavo a qualunque ora sulla strada. Il trattore massiccio, guidato sempre da uomini altrettanto massicci, mi veniva addosso, mi frenava davanti. Alle volte, nell’arrossarsi del mattino, trovavo una che scendeva e mi tagliava l’incrocio principale a tutta velocità, vuota; andava a prendere un caffé (l’autista) e ad abbeverarsi nel fiume (la cisterna). Provavo a seguirla per un po’, tagliando anch’io le curve una dietro l’altra senza frenare, ipnotizzata dal gioco delle marce ridotte, il cui rumore di cambio mi entrava dalla finestra semiaperta come un’ansimare da predatore potente che corre verso la preda. L’autista mi guardava sempre, mi seguiva dai quattro specchietti, io stavo quasi per volare dopo tante curve, la Panda chiedeva il freno, e alla fine mi allontanavo per vederla allargarsi finalmente al semaforo, goffa come un orso nei vicoli della città vecchia, eppure capace di abbattere le case per passare. Se la trovavo in salita era peggio, era veramente l’immagine delle mie internità più recondite, la paura di andare indietro perché il motore non ce la fa (e questo valeva anche per il motore di una Jaguar), la paura di cozzare con la macchina dietro, i freni non reggono la pendenza, allora che fare, mi fermo scappo urlando lascio la macchina lì. Quando la vedevo che lentamente, veramente molto lentamente, boccheggiando il fumo più nero mai prodotto con i derivati del petrolio, andava su per le salite ripide che io percorrevo con la radio a palla per non sentire la pendenza che si agganciava alle ruote, in seconda, con il motore affogato, era il panico; non potevo fermarmi, mai in salita, non sarei mai ripartita: bisognava continuare, adattarcisi al passo, sputacchiare insieme china sul volante preghiere smozzicate e parolacce in tre lingue, temere il surriscaldamento del motore, il mio coraggioso 750, sperare in una cunetta che mi permettesse di allontanarmi dalla mole apparentemente arrotondata che nasconde le angolature, le punte, i tentacoli della piovra dei tubi di scarico, la minaccia delle ruote che sembravano schiacciare a fondo l’asfalto nerissimo, antineve, della salita. In qualunque momento mi sarebbe venuta addosso, e io sarei andata indietro, guardando indietro terrorizzata dall’inesistente baratro che mi voleva inghiottire, come in tutte le salite, in tutti i semafori in salita o curve strette in salita. Mai fermarsi, mai….

Mi stringevo nelle curve finché tutta la loro lunghezza non era sparita dietro la mia piccolezza. E poi, finalmente, me le trovavo al campeggio che scaricavano l’acqua, e lì era tutto un chiacchierare degli autisti con il guardiano polacco, risate, lazzi e frizzi, occhiatacce alle femmine, mentre il mostro sembrava un innocuo modellino H0 parcheggiato sul piazzale del deposito. Sentivo allora che potevo respirare (era piuttosto un soffiare da scampato pericolo), andare verso la mia casetta, farmi un caffé, sentire finalmente il silenzio del bosco vicino che mi riempiva, che leniva ogni dolore, fino alla prossima cisterna…

Semiautomatico

Ci sono di quei giorni in cui nulla è sufficiente, né la musica, né il movimento delle cose, tantomeno delle persone: nulla. Ci sono di quei giorni in cui vorrei scrivere e commetto l’errore di ripassare i miei vecchi scritti, oppure tiro fuori i miei diari. Ci sono di quei giorni piatti e senza sapore, in cui tutto va avanti e cammina ben oliato, mentre io sto da qualche parte, facendo autostop per non so dove.

Lo sento appena sveglia. Il caffè sa di niente. L’acqua non ha temperatura. L’aria non ha spessore. Vedo per fotogrammi. Mi muovo senza sangue. Ma mi disegno una riga sotto gli occhi: il contatto del composto grasso mi ricorda che devo tenerli aperti. La percezione si acutizza ad un livello non intaccato dalla norma. E’ un rituale, un’offerta; e spero in un ritorno, sennò svanisco..

See you later.

lunedì 14 febbraio 2005

Net to be_San Valentino!

E io, qui, a far vaneggiare le cassiere... Vedi e ammira, oh popolo.

Another time

Ospite, ancora, qui.

Lamento delle cassiere

Non lo so. Alle volte si avvicinano a me, sono morbidi, le loro mani non vogliono afferrare o graffiare, emettono calore rassicurante. Come un boa piumato le loro frasi e sorrisi e movimenti sono carezza. Mi ci sento così bene, e non vorrei mai finisse. Mi passano davanti le scatolette brillanti, il pesce impacchettato e l’odore delle caramelle, e non m’importa. Quante buste? A loro non le faccio pagare.

Capita pure il contrario, ma anche che mi circondino e mi controllino ogni movimento; spiano quello che faccio, o con gesti e rumori mi allontanano, alzano dei muri di gomma o di vetro antiproiettile, rifiutano di comunicare. Molti, addirittura, ridono di qualcosa che incontrano in me e che non sanno classificare, controllare. Mi feriscono. Sono costretta a fare calcoli metafisici.

Poi, per caso, perché gli orologi vanno senza chiedersi perché, perché le cose succedono e non chiedono permesso a nessuno, spariscono, mi dicono “ciao tesoro, alla prossima”, “ehi, stammi bene, eh?” oppure “mi faccio vivo io, se”. E io resto così senza capire, oppure capisco che non c’è nulla di strano, che mi ero perenne, infinita, totalmente illusa come sempre. Fisso le casse delle arance, così, perché dicono che l’arancione porta energia.

Prendo il microfono. Una signora troppo ingioiellata è venuta inviperita a protestare. “Un Audi nera, il proprietario è pregato di spostarla” e anche, una volta: “Una Ferrari Modena” - la vedevo con la coda dell’occhio – “in doppia fila”. Il proprietario nemmeno mi ha guardato, mentre usciva. E dire che avevo anche il mascara, quel giorno, e la french manicure fresca fresca. Denaro buttato.

So che nessuno di loro mi porterà via, con una vincita al superenalotto, in Polinesia. E’ questo che mi duole.

domenica 13 febbraio 2005

Sunday, sleepy sunday

Sfasciacarrozze, orticelli, capannoni di lamiera, mucchi di traversine, fabbrichette e carrozzerie, parallelepipedi di portabottiglie verdi e neri, platani e robinie completamente spogli i cui rami schiaffeggiano lo sguardo, torri dell’alta tensione, geometrici stop visti dall’alto, un muro di eucaliptus, due ragazzi fermi in un campetto, un bunker coperto di licheni, la via del Mare a sottolineare il tutto con un bel tratto nero, il ritmo delle ruote sui binari, case di Ostia come virgole tutte uguali, nuvole indecise, banchetti di magliette e felpe di squadre di rugby.

- Un cappuccino, molto lungo di caffé.
- Cioè un cappuccino scuro?
- Si, esatto.


Nel bar non ci sono più cornetti, ma fioccano i caffé mentre il barista, coi capelli tinti di un nero corvino, fa le prove facendo volteggiare una bottiglia di latte e poggiandola di botto, come i barman acrobatici. La gente entra ed ha tutta quell’aria di appena alzata delle domeniche mattina, un aria che dura almeno fino alle cinque del pomeriggio; si poltrisce. E il sole di Ostia sembra sempre preso in prestito alla capitale. E’ un sole di borgata, è come quando vai per il Tiburtino Terzo al di qua dell’Aniene, ma anche al di là, verso Casal dei Pazzi, e se chiudi gli occhi senti ancora l’odore della fanghiglia degli argini là vicino, degli orticelli a pelo d’acqua sporca; è subito Pasolini e Jarrett, The Köln Concert anche nei viali e le strade anonime, e su tutto quell’odore sfuggente di mare, quei gabbiani invernali che si fermano sui tetti come stessero per andare via per sempre. Ma vanno e vengono, guardando la ruota panoramica del parco giochi che gira, completamente vuota, contro il cielo.

Mura romane, due pini-tre pini-una pineta, un’autobus che arriva alla fermata, incroci con indicazioni bianche blu e verdi, escavatrici bloccate nel gesto meccanico, roulotte abbandonate e sfatte, terra rimossa, rovi e canneti, un mucchio di griglie di ferro arrugginite al sole, alberi spogli e mal potati, rampe di salita e discesa del raccordo, la griglia del Gazometro di Testaccio - e là, lontano, il Tevere - panni alle finestre e profili arrotondati di case dell’Ostiense, uno sguardo ai banani strapazzati della Stazione Lido, e via per i tunnel blugommati fino a casa.

venerdì 11 febbraio 2005

Detto ciò,

me ne vado a sentire un po’ di Beethoven. Bonsoir à tous!

Matematica applicata a noi golosi

Problema: Se i tre contenitori di marmellata e nutella hanno una capacità di 200 gr e sono stati usati, per riempire le crêpes e per la foto, sei cucchiaini diversi, quanto di tutto mi sono mangiata mentre le preparavo?


Posted by Hello

Beautiful suggestion

Le foto suggeriscono le parole...

Galvanize

Scarto una caramella ed aspetto. La mattina è pesante, inquinata, l’aria freddissima mi costringe ad avvolgermi nella giacchetta a grosse trecce, un po’ logora, ma che comunque mi aiuta a sentirmi più protetta. Nel distributore di benzina, gli impiegati percorrono a passi lunghi lo spazio continuamente riempito ed svuotato di macchine assetate. Il meccanico del 116 sta finendo di mettere la batteria nuova, ha dei guanti con le dita tagliate e mantiene la bocca stretta; concentrato - sotto il mio sguardo, che ogni tanto si lancia come una fiammata di fretta verso il vano motore - avvita, ripulisce i morsetti.

- Ma, secondo lei, ho il tempo di andare a prendermi un caffè?
- Certo, signora, devo controllarla, ci metto ancora un po’; vada, se vuole.
- Gliene porto uno, a lei?
- Grazie, molto gentile, non c’è bisogno.


Dal vetro semiabbassato di una Smart argento che viene a parcheggiare vicino alla mia macchina escono le risate di due ragazzi, insieme ad un martellante elettropop. Hanno degli occhiali a nastro, specchiati, sui quali si riflettono le scie dei jet nel cielo sporco, orlato di un rosa che si scioglie lentamente in giallo. Mi chiedo se c’è un giorno in cui ci sono più scie nel cielo, in cui i topgun si danno appuntamento… Entrano nel bar davanti a me. Lui, che non ha smesso di gesticolare dentro al parka color ghiaccio dentro il quale scoppia e del quale alla fine apre la lampo con un gesto millimetrico, studiato, lancia le mani verso lei, finge schiaffi sui suoi capelli e non osa più giù. Lei, parka uguale ma più lungo, si piega come un ramoscello, ancora troppo brusca per lasciarsi diventare Dafne; il bar diventa momentaneo quadrilatero per questa breve capoeira. Centauri che si portano sottobraccio le copertine della moto come fosse la cappa del torero, impiegate agguerrite in coppia, un ragazzo che legge un messaggio sul cellulare - e io che guardo distratta i vassoi impolverati e rotti dei cornetti, gli orsetti sanvalentineschi, i biglietti della lotteria -, tutti in fila mentre una sola ragazza tenta di organizzare le priorità: prima i caffè e poi i cappuccini, per le sigarette e le ricariche c’è sempre tempo. Un agglomerato grigio cenere con schegge di vetri colorati fa da banco, e penso mentre lo guardo che non si butta niente che non possa essere ritrasformato e rivenduto, le schegge sono così piccole.. e forse quelle più grandi servono per i banchi dei bar e dei pub più trendy in Giappone…

- Lo vuole un po’ di cacao nel cappuccino?
- Sì, grazie.


Con quei occhi spauriti, la sciarpa di grossa maglia nera a proteggere il collo, il berretto un po’ piccolo, questa ragazza mi fa tenerezza. Vuole il mare anche lei, lo sento. Le tazzine usate si sono disposte come in un Morandi; aspettano inquietanti, appoggiate sul bianco, l’acqua bollente.

Le guance del meccanico, che sta per chiudere il cofano quando arrivo, sono leggermente più rosa: effetto di un buon lavoro finito. Il sole ha cominciato a spennellare di luce cruda i pilastri metallici. Firmo i moduli, chiudo le portiere, mi mangio tre confetti di gomma alla menta, parto a zigzag e mi lancio dietro ad un’Alfa che sembra galleggiare sull’asfalto; fino all’uscita del raccordo, come due ballerini, andiamo a destra ed a sinistra schivando macchine più lente. Gli ultimi cento metri. Parcheggio. Oggi niente gracchiare di cornacchie. Vince un gallo, che canta non so dove, ma non ci sono più i galli di una volta: sono le 9…

mercoledì 9 febbraio 2005

Comunicazione di servizio_2

Visto che oggi sono poco creativa... Qualche foto nuova: rifateve l'occhi (che presuntuosa...)!

Sull'amore

Svenire, osare, esser furioso,
aspro, tenero, liberale, schivo,
rinfrancato, mortal, defunto, vivo,
leale, traditore, vigliacco e coraggioso:
non trovar lontan dal ben centro e riposo,
mostrarsi allegro, triste, umile, altero,
arrabbiato, coraggioso, fuggitivo,
soddisfatto, offeso, diffidente;
allontanar lo sguardo davanti all’errore evidente,
bere il veleno qual fosse un liquore,
dimenticare il vantaggio, amare il danno,
credere che il cielo tutto stia dentro l’inferno,
dare la vita e l’anima al disinganno;
questo è amore, chi lo visse lo sa.

Lope de Vega (1562-1635). Libera traduzione.

Una citazione

The life of a creator is not the only life nor perhaps the most interesting which a man leads. There is a time for play and a time for work, a time for creation and a time for lying fallow. And there is a time, glorious too in its own way, when one scarcely exists, when one is a complete void. I mean--when boredom seems the very stuff of life.

Henry Miller

Memento homo, quia pulvis es

[..]
er zavio e 'r matto adesso è ttal e cquale:
o ss'è ggoduto o nnò, ssemo tutt'uno.

Addio ammascherate e carrettelle,
pranzi, cene, marenne e colazione,
fiori, sbrufi, confetti e carammelle.
[..]

Giuseppe Gioacchino Belli, Er primo giorno de quaresima

Un tempo sospeso. E’ finito il carnevale. I giorni si succedono tutti uguali. Le mie sensazioni sono congelate. Mi sento parte di un mondo che sta sotto dieci centimetri di qualcosa, impegnatissimo a germogliare. Il sangue pulsa e sento ogni movimento. Aspetto, brucio sotto la cenere… primavera, vieni, presto....!!!!

domenica 6 febbraio 2005

Il silenzio, nei blog


Posted by Hello

Una tazza di thé Lapsang, un testo sull’imprenditoria femminile, qualche spicchio di arancio dolce varietà Navel. La luce spinge dai vetri della cucina, vorrebbe accelerare il tempo, arrivare fino al tavolo, sottrarmi alla forzata casalinghitudine. Ma è altro quello che mi occupa, mentre contemporaneamente funziona il traduttore automatico del mio cervello y le dita vanno morbide sulla tastiera al ritmo marcato della musica di fondo. E’ il silenzio, e la lontananza.

Stelle, coriandoli. Nella Rete il silezio si sente. Uno di noi si ferma, le sue parole sono più sofferte, la sua voce si appanna. La porta nera non emmette alcun segnale verso Giove. Nessun paesaggio illumina l’anima, ma arriva un sommesso pianto, come un bambino cui fa male la testa. Una pausa elettrocinetica: le pagine congelate in un momento lasciato dietro si propongono soltanto ai motori di ricerca…Il tempo in questo spazio fatto di longitudini e lattitudini gira più intenso che altrove, possiede uno spessore. Da ogni squarcio di questa cartolina blunera nella quale i coriandoli parlano e le stelle hanno le sinapsi, da quel luogo dove il sentire dell’altro è intuito ed insieme arte d’indovino antico, scappa una materia nebulosa, quel che poteva essere e non fu. Dall’altra parte del lieve, ma assoluto sipario che ci separa dalla Vera Vita.

Parlarci è camminare nella notte, con vicino le presenze degli altri. Riprenderò i miei passi, questi che sono per te adesso, in questo tempo. Guarderò a questo silenzio come a un messaggio che non posso più comprendere, lo classificherò in quell’angolo in cui dormono i NO. E aspetterò.


Una citazione

La mia strategia è stata sempre quella di bruciare le navi dietro di me. La mia faccia guarda sempre al futuro. Quando commetto un errore, è fatale. Quando mi buttano via, cado all’indietro… fino in fondo. L’unica mia salvezza è l’elasticità. Ho sempre rimbalzato, fino ad oggi. Alle volte questo rimbalzo è sembrato un’attuazione al rallentatore, ma per Dio la velocità non ha speciale importanza.

Henry Miller, The Roxy Crucifixion, Sexus, libera traduzione.

giovedì 3 febbraio 2005

Senz’acqua

Guardo, guardo le nuvole, ventagli aperti nel cielo, mentre vado come tutte le mattine, tutte ma tutte diverse, zigzagando sull’autostrada, battendo il ritmo della musica sul volante, svagata perché è presto. Merli, passeri, cornacchie poggiate sui lampioni come animali fantastici, il becco aguzzo, uccello del malaugurio. Dopo questo primo rifiuto, però, me le riguardo sempre, le vedo così grandi che mi viene voglia di prenderne una per a capire se mi sbaglio, forse sono calde e silenziose, forse sono soltanto cugine dei formidabili corvi neri che sorvolano impietosi i campi di grano castigliani, nella calura di giugno, come avvoltoi. Lenta e precisa passa la mietitrice Claas, un carrarmato giallo o verde che scarica nel camion il grano polveroso, e il grano va dal camion al magazzino dove una luce sola filtra nel pesante meriggio. Le strade del paese, un tempo fatte della sola terra su cui tutto è poggiato, adesso di un cemento crudo e straniero ai colori dell’altipiano, sono mute, fa troppo caldo, le porte delle case hanno la palpebra lieve di una tenda i cui colori sono aggrediti dal sole, chiuse ed insieme in mostra alla curiosità. La porta è aperta, e io - come tutte le volte che ho trovato una porta semiaperta che porta ad un cortile, un magazzino, una casa in costruzione, una qualunque tranche de vie privée - la spingo, un portone di metallo; dentro un silenzio solido, la polvere del grano dappertutto, e l’odore dei mattoni fatti con l’argilla e la paglia. E fuori sempre il sole, il sole implacabile. Quest’odore, la polvere, l’odore della terra, la crudezza del sole, sono invisibile tatuaggio che percorre tutta la mia infanzia; un io libero nel fango delle strade con gli altri bambini radunati dalle famiglie nell’estate, libera nella notte senza luci elettriche, camminando nella pianura infinita fino a casa, sotto la luna piena, senza bisogno di altre illuminazioni. No, nessuno mi vede, nessuno verrà a dirmi niente: prendo un pugno di grano e lo metto in tasca. Adesso dorme in un cassetto di casa. Fuori, nell’estate, non ci sono mai nuvole. Una superficie metallica blu, un Klein che mai finisce.

Guardo, guardo le nuvole e sotto le nuvole c’è questo cielo invernale, anonimo come un cielo d’albergo, incolto da cicogne e da cornacchie. Sotto tutto questo teatro di linee e di curve limitanti cerco il mio immenso blu così lontano, lontano mare dentro e sopra e sotto di terra e di colline basse che si vedono soltanto al tramonto e all’alba, come un limite viola all’orizzonte. Chiudo gli occhi e spengo il motore, concentrata sul gracchiare delle cornacchie, che si va allontanando.Vado..

mercoledì 2 febbraio 2005

Una poesia

Perché taci.
Perché parli mentre io parlo.
Perché silenzi.
Perché ci sono delle mani, in quei silenzi.
Perché caldeggi.
Perché non c’è sole se non lo dici.
Perché contieni.
Perché nella tua ombra è scritta la notte.
Perché abbasso gli occhi
Nella dolcezza.

Perché non posso alzarmi se non mi porti il caffè.

martedì 1 febbraio 2005

Voglia di freddo

Cerco il ghiaccio. Dovrei uscire prima, prima che sotto gli olivi il bianco della brina fonda: intorno, rimane l‘ombra mesta della potenza del freddo. La voglio nelle foglie, la brina; voglio vedere come l’assorbono. Ma bisogna essere della compagnia dei galli, o aspettare nella fortuna. Dunque aspetto, come sempre, che la natura mi conceda una bella gelata, uno schiaffo sottozero tutto per me. Pazienza. La città mi presenta un profilo incompleto, in cui sospetto la somiglianza con quello che sta fuori: li campetti in cui i seminativi stanno sul punto di scoppiare nel verde, pinete risicate, sterpaglie e rovine che, sono sicura, già 2000 anni fa avevano questo aspetto casuale, come se tutta la campagna fosse un immenso plastico ferroviario in cui ogni dettaglio di cartapesta è lavorato a mano per renderlo più vero del reale. Anche il cielo sembra fatto con i pennarelli, grandi tratti di celeste e macchie sparse di bianco e grigio a chiazze piumate.

Annamo, grigi sulle strade, coi nostri faretti accesi. Soltanto le grosse moto, coi guidatori quasi in piedi, m’incutono rispetto: sono i mandriani del traffico invernale, gialli e rossi e neri, i colori squillanti, le moto lucidate, le ruote adatte ad ogni territorio, i guanti duri di chi sa andare in mezzo al gregge, svegliando i dormienti…